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I Mesi degli arazzi Trivulzio: gennaio

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Anno nuovo calendario nuovo. 
Per illustrare i mesi del 2015 niente miniature, sculture o affreschi come negli anni scorsi, ma dodici variopinti arazzi di circa cinque metri per cinque, oggi conservati al Museo d'arte antica di Palazzo Sforzesco a Milano.
La serie viene commissionata nel 1501, dal governatore della città, Gian Giacomo Trivulzio per celebrare il matrimonio dell'unico figlio Gian Nicolò con Paola Gonzaga. 
L'esecuzione è  affidata a Benedetto da Milano, capo della prima arazzeria istituita,  da poco istituita a Vigevano. 
Tra tra 1504 e 1509, insieme ai suoi collaboratori, tessendo con fili di lana  e  di seta, Benedetto dà forma e colore ai grandi cartoni disegnati da Bartolomeo Suardi detto il Bramantino (1465 ca-1530), con una perizia  che nulla ha da invidiare alle più reputate arazzerie fiamminghe.
Ed ecco il mese di gennaio:


La scena del mese è rappresentata entro una cornice in cui sono raffigurati gli stemmi dei Trivulzio e delle nobili famiglie ad essi imparentate. 
In alto, tra il sole e il segno zodiacale dell'Acquario, domina un tondo con lo stemma di Gian Giacomo Trivulzio, Sopra il cimiero, una figura di donna alata, una sorta di arpia o di sirena, tiene tra le mani una lima che si spezza contro un diamante. In un cartiglio è inscritto il motto dei Trivulzio in francese antico: "ne t'esmai" vale a dire "non temere" o "non perderti d'animo".
La scena si volge in una piazza, circondata da edifici che hanno l'aria di una scenografia teatrale. 
Al centro, sopra un'ara classica,Gennaio è personificato dal dio Giano, il dio romano che apre e chiude le porte, protettore della pace e della guerra, da cui, secondo un'antica tradizione, avrebbe tratto il nome. 
Il dio bifronte con un volto barbuto e uno glabro tiene, in una mano, un bastone con cui indica il sole e nell'altra una gigantesca chiave. Nella parte anteriore dell'ara è incisa l'iscrizione: "Palos acuit ut vitibus/ foetura aves cortis vocat/iungit boves pulsa solo/ et Ianuarius nive""Gennaio aguzza i pali per le viti,  richiama i polli nei cortili e tolta la neve dal suolo aggioga i buoi". 
Le attività del mese non sono molto impegnative, ridotte come sono a pali da aguzzare e polli da scacciare. 
Col gelo il terreno diventa troppo duro ed è impossibile lavorare nei campi, tanto che i contadini sono obbligati a un ozio forzato. 

Sulla destra, gli attrezzi agricoli giacciono inutilizzati a terra un uomo siede spossato accanto a un bambino, mentre un giovane in piedi con le braghe tutte stracciate tiene svogliatamente una vanga e sembra assorto nei suoi pensieri. 
Tutt'intorno  la gente festeggia un carnevale precoce: a sinistra, ai piedi dell'ara, uno zampognaro  tiene accanto a sé una brocca e due bicchieri pieni a metà. 
Al suono della zampogna quattro persone accennano ai passi di una danza moresca. 
L'uomo in primo piano indossa un turbante così come la donna che, alla maniera orientale, ha il volto velato. Anche i personaggi sullo sfondo sembrano danzare: uno è nudo, mentre due indossano strani costumi a scaglie e portano bastoni a cui sono appesi dei palloni o delle vesciche di maiale gonfie d'aria com'era uso nei carnevali del Nord. 
A destra,  una zona più scura del suolo sembra indicare la presenza di una lastra di ghiaccio che riflette alcuni passanti. Il clima è freddo, anche se il cielo, in cui si intravedono stormi di uccelli in volo, è di un azzurro terso. 
Dalle finestre uomini e donne guardano incuriositi quello che succede nella piazza, mentre le porte dell'edificio circolare sullo sfondo sono chiuse, come quelle del tempio che i Romani avevano dedicato a Giano e che restavano serrate in tempo di pace.

Ed è, appunto, la pace che Gian Giacomo Trivulzio vuole celebrare. All'epoca è un uomo maturo, un condottiero spregiudicato, più abituato alla guerra che alle arti e  che è sopravvissuto indenne a tutti i cambiamenti e a tutti gli intrighi mutando bandiera  a seconda della sua convenienza. 
Dagli Sforza è passato al servizio degli Aragona e poi a quello dei francesi, ingaggiato con una cifra da capogiro per guidare le loro truppe contro il ducato di Milano.
Dopo la cacciata di Ludovico il Moro è stato nominato da Luigi XII Maresciallo di Francia e Governatore di Milano. 
Ora che è arrivato al potere e che ha consolidato, come meglio non si potrebbe, i suoi possedimenti e le sue finanze vuole rappresentare negli arazzi gli effetti del suo buon governo e convincere i più scettici che, grazie alla protezione dei Francesi, Milano si appresta a vivere una nuova età dell'oro.
Bramantino ha capito bene i suoi intenti e, nelle scene ricche di riferimenti classici che ha disegnato per lui, gli fornisce le immagini che desidera.
A gennaio Giano con la sua grande chiave celebra la pace, chiudendo le porte del tempio; per le strade si improvvisano danze carnevalesche, dimenticando le paure della guerra e i rigori della stagione.
Anche se la realtà è ben diversa nelle sale del suo lussuoso palazzo guardando  gli arazzi come quelli che i più ricchi si possono permettere, Gian Giacomo Trivulzio può continuare a sognare.





Un approfondimento dell'iconografia e delle vicende storiche degli arazzi è in G.Agosti e J.Stoppa, I Mesi del Bramantino, ed.Officina Libraria 2012


I Mesi degli Arazzi Trivulzio: febbraio

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Siamo al primo di febbraio ed è l’ora di pubblicare la seconda immagine del calendario che ho scelto per quest’anno: gli arazzi con il ciclo dei mesi, commissionati, agli inizi del Cinquecento, dall'allora governatore di Milano, Gian Giacomo Trivulzio, e ora conservati al Castello Sforzesco di Milano.


Febbraio ha qui le sembianze di un uomo barbuto che, con una mano, indica il sole e con l’altra versa acqua da una brocca, in un gesto che ricorda il segno zodiacale dell'Acquario.
Lo sfondo è quello di un paesaggio, dove il freddo rigido dell’inverno, rende le montagne simili a blocchi di ghiaccio e spoglia  i rami degli alberi.
La scena è inquadrata da una cornice, in cui si ripetono gli stemmi dei Trivulzio e delle nobili famiglie ad essi imparentate.
Un altro grande stemma  dei Trivulzio, in alto al centro, domina tutta la rappresentazione, mentre, ai lati, sono raffigurati  il Sole e  il segno astrologico dei Pesci.
A sinistra, un uomo sta intagliando una grande fiaccola di legno. 
Sta praticando- con una mazzetta e uno scalpello- dei solchi lungo un tronco d’albero, per poi inserirvi i cunei già preparati a terra, che serviranno a mantenere aperte le incisioni e a far bruciare meglio il legno.
Intorno a lui, altri uomini reggono fiaccole già pronte e sembrano preparasi a un corteo

A destra, in basso, due fiaccole bruciano scoppiettando, mentre tre uomini seminudi si avvicinano al piedistallo di Febbraio.
Dietro, entro gruppo di figure variamente abbigliate, spicca una misteriosa donna con il volto coperto da una maschera traforata che assomiglia a un burka
Sul pilastro, a destra, compare la firma del tessitore: "Ego Beneditius de Mediolani/ Hoc opus feci co sociis suis in Vigli” vale a dire: "Sono io, Benedetto da Milano /quello che / ha fatto quest’opera con i suoi collaboratori a Vigevano";
Nella scritta traspare tutto l’orgoglio di chi sa di avere portato a termine una grande impresa. Febbraio è, infatti, l'ultimo mese del ciclo: l'anno a Milano- come in molte altre parti d’Italia-  comincia il 25 marzo, il giorno dell’Annunciazione. 
Si concludono, dunque, così cinque anni (1504-1509) di duro lavoro, dalla tintura iniziale dei filati di lana e di seta, alle lunghe ore passate ai telai, senza pause e senza distrazioni.
Benedetto da Milano e i suoi collaboratori devono dimostrare che la manifattura di Vigevano, la prima a essere istituita in Italia, può competere con le  più famose arazzerie fiamminghe e che è in grado d tradurre più fedelmente possibile, i dodici cartoni, di ben cinque metri di lato, che Bartolomeo Suardi (1465 ca-1530) detto il Bramantino, ha consegnato loro nel 1501. 
Certo non deve esser stato facile per artigiani, poco avvezzi alla cultura classica, comprendere le dotte allusioni elaborate dal pittore e farle rinascere nei fili variopinti dell'arazzo.
Come nell'enigmatica scena di Febbraio, dove  l'artista ha sconvolto completamente l'iconografia, dei cicli dei mesi tradizionalmente legata alle attività agricole.
L'unica traccia che rimane delle fatiche dei campi è  nell'iscrizione del piedistallo”Per prata pingue distrhit/ pecus igni pabuum dat/ Hortosque stercorator et/ choreas ducit februarius” Febbraio disperde il  pingue bestiame attraverso i prati/dà alimento al fuoco (con la bruciatura delle  stoppie/ concima gli orti/ e apre le danze (di primavera)".

Al posto dei contadini al lavoro nelle fertili campagne di Lombardia, uomini e donne seminudi o vestiti all'antica, celebrano, con l’acqua e col fuoco, in una sala decorata di marmi, arcane cerimonie.
Lontano dalla bruciatura delle stoppie o della concimazione degli orti, descritte nell'iscrizione, Febbraio appare, piuttosto, come la personificazione del misterioso dio Februo, da cui, secondo la tradizione, avrebbe preso il nome. Protettore dei riti di purificazione era legato, nell'antica Roma, alla festa dei Lupercali celebrata alla metà del mese e in cui schiere di giovani, coperti solo di pelli di capra, correvano lungo il Palatino, colpendo gli astanti con le loro fruste al lume di grandi fiaccole.
Nel gelido mese di Febbraio, evocato dalla fervida immaginazione di Bramantino, questi riferimenti al mondo antico si intrecciano con rimandi all'Oriente, giovani seminudi si affidano alla protezione di un dio pagano, mentre una  donna sembra spiarli dal tessuto traforato di un burka. 
Utilizzando fonti letterarie poco note, mescolando astrazione e attenzione alla realtà più minuta, atteggiando le figure in gesti bloccati, conferisce a tutta la scena l'atmosfera sospesa di una rappresentazione sospesa nello spazio e nel tempo.
E così il suo mese di Febbraio arriva, mantenendo il suo fascino enigmatico e oscuro, fino a noi.





Un approfondimento delle vicende storiche e dell'iconografia degli arazzi è in G.Agosti e J.Stoppa, I Mesi del Bramantino, ed. Officina Libraria 2012

Goya innamorato? I ritratti della Duchessa d'Alba

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Un dipinto di Francisco Goya (1746-1828) con il "Ritratto della duchessa d'Alba" (olio su tela, cm 194x 130), ora a Madrid, nella collezione Alba Dedica: 


Su uno sfondo di dune sabbiose, una donna, con i lunghi capelli neri, è in piedi, vestita di un elegante e vaporoso abito bianco, con un un orlo dorato e il braccio sinistro ornato di bracciali d'oro. 
In contrasto con i colori neutri dello sfondo e della veste, i due fiocchi, uno tra i capelli e un'altro allo scollo, l'alta fusciacca e la collana di corallo sono tutti di rosso vivace fino all'impertinenza; lo stesso rosso che spicca nel fiocco legato a una zampa del cagnolino bianco.
Con il braccio destro la donna indica, con un fare imperioso, la scritta sulla sabbia: "A la duquessa de Alba Fr.de Goya 1795".

Ecco come appare a Goya Maria Teresa Cayetana de Silva, duchessa d'Alba: una dama fiera, consapevole di avere il sangue più blu di Spagna, seconda solo alla regina per titoli e importanza dinastica. 
Erede di un'immensa fortuna, bella e stravagante, è, all'epoca, al centro di tutti i pettegolezzi: i benpensanti sussurrano scandalizzati dei suoi atti inconsulti di generosità, della sua passione per le corride (e i toreri) e della sua abitudine di frequentare, travestita da popolana, i quartieri più malfamati. 
Nel 1795, la duchessa ha trentatré anni, è sposata da tredici, ma non ha avuto figli. 
Goya, all'epoca, ha quasi cinquant'anni ed è appena stato nominato direttore del corso di pittura nell'Accademia Reale di Madrid. 
Reduce da una lunga malattia che lo ha reso completamente sordo, non ha esitato, non appena contattato dal Duca d'Alba, a prendersi l'impegno di eseguire i ritratti del Duca  e della moglie: accettare la commissione equivale per lui a confermarsi il ritrattista ufficiale dell'aristocrazia spagnola. 
Con il Duca instaura subito un rapporto di stima e di reciproco rispetto. 
E con la duchessa? 
Maria Teresa è una donna eccentrica e capricciosa, ma piena di charme, ben capace, se vuole, di affascinare un serio pittore di mezza età.  
Un giorno, racconta Goya, all'amico Martin Zapatero: "è entrata nello studio e ha voluto che le truccasi il viso. E- ammette- mi è piaciuto molto di più che dipingere una tela.." 
Non è necessaria troppa malizia per immaginare le sensazioni dell'artista nello stendere i suoi colori direttamente sul volto della donna, lo stesso volto altero che ha ritratto nel dipinto. 

Un anno dopo, la duchessa, rimasta vedova, si trasferisce, per il periodo del lutto a Sanlucar, sulle coste andaluse. 
Goya la raggiunge giusto il tempo per eseguire un altro ritratto: un olio su tela (cm 210x147), ora conservato a New York, The Hispanic Society of America.


Ed eccola qua: sempre in piedi, impettita e altezzosa, senza la minima traccia di un sorriso, su uno sfondo di sabbia dorata. 
Questa volta è abbigliata in nero, il colore del lutto, ma anche quello dell'abito delle majas, le donne del popolo. 
La mantiglia di merletto si confonde con la massa vaporosa dei riccioli neri e accentua il pallore del volto. 
Sotto l'abito e lo scialle di pizzo, spicca l'oro di una sottoveste e il rosso di un'alta fusciacca. 
Al dito, la Duchessa porta due anelli, dove sono incisi i nomi "Alba" e "Goya" e, anche qui, indica la scritta sulla sabbia: "Solo Goya". 
Lo sguardo rimane imperturbabile, come quello di una dea. 

Due ritratti, il volto di lei abbozzato nei fogli di un album, una singolare seduta di maquillage, due scritte sulla sabbia e due anelli con i nomi. 
Niente altro, ma è bastato per alimentare la leggenda di un amore tra l'orgogliosa gentildonna e il tormentato pittore.  
Un amore su cui sono stati scritti fiumi d'inchiostro.

E, invece....Macché amore! 
Tagliano corto le autrici di un libro dedicato a Goya e alla Duchessa d'Alba (quiè il link): le cose stanno in tutt'altro modo. 
Intanto - chiariscono subito- i dipinti in cui Goya ha ritratto la Duchessa, l'unica prova di una loro eventuale relazione sono solo questi due:  non c'è nessuna testimonianza che la sussiegosa gentildonna abbia fatto da modella anche per i celebri dipinti con la "Maja desnuda"(qui) e la "Maja vestida"(qui), ora al Prado, la cui sensualità aveva colorato di sfumature erotiche la fantasia di certi studiosi. 
E, poi, una lunga indagine sui documenti ha confermato che, nella corrispondenza della duchessa, non compare alcun accenno a Goya. 
Anzi, in una lettera scritta quando il pittore soggiornava a Sanlucar- nel periodo in cui, secondo i pettegoli, si sarebbe svolta la loro relazione- la gentildonna confida a un amico di essere distrutta e completamente assorbita dal dolore per la morte del marito. 
C'è da considerare, poi, che, all'epoca, la differenza sociale tra i due era incolmabile: la Duchessa, conscia del suo rango, non poteva considerare Goya come un possibile corteggiatore, ma lo vedeva solo come una persona al suo servizio, alla stessa stregua di un bibliotecario o un maggiordomo. 
Gli omaggi del pittore alla sua bellezza non erano che atti dovuti, come i versi celebrativi dei poeti di corte. 

Ma allora- potrebbero obbiettare i più romantici-  perché, nel ritratto in bianco, mostra così ostentatamente la dedica di Goya? 
Anche qui una spiegazione c’è: la duchessa non indicherebbe affatto il nome dell’innamorato, ma, più prosaicamente, il terreno, simbolo delle sue proprietà fondiarie, vaste come quelle del re.
Altri segni di potere- e non d’amore- sarebbero nel ritratto in nero, dove la mantiglia scura evidenzierebbe il suo stato di vedova e la fusciacca, simile a quella che indossano i capitani reali di reggimento, alluderebbe alle cariche militari della sua famiglia.

A questo punto, agli irriducibili non rimane che appigliarsi alla suggestione della scritta "solo Goya" 
Inutile! Controbattono, implacabili, le autrici del libro: nemmeno questa è una prova. 
Invece di una dichiarazione d'amore tracciata sulla sabbia, come in un flirt di adolescenti, la scritta potrebbe essere, piuttosto, l'affermazione orgogliosa del pittore che "solo Goya"è all'altezza di dipingere un simile modello. 
Che altro dire? Se, davvero, è così, il mito si sfalda e la ragione, come spesso succede, vince sul sentimento.

Chi ancora si rifiuta di arrendersi può sempre procurarsi la copia di un vecchio film come la "Maja desnuda"(qui), dove, tra gelosie e vendette, un ardente Goya interpretato da Tony Franciosa si strugge d’amore per una duchessa d’Alba dalla conturbante bellezza di Ava Gardner. 
E, con buona pace dei documenti d'archivio, lasciarsi semplicemente andare al sogno.







Lo schiavo di Velázquez: il "Ritratto di Juan de Pareja"

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Una tela di Diego Velázquez (1599-1660), attualmente conservato al Metropolitan Museum di New York: 


Su uno sfondo neutro, un uomo dalla pelle scura e neri capelli crespi, vestito di un mantello marrone e di  un abito di panno con un ampio colletto bianco decorato di pizzo, rivolge uno sguardo pieno di fierezza verso lo spettatore. 
Con il suo misto di riserbo e di orgoglio, potrebbe sembrare un nobile gentiluomo, se non indossasse un abito talmente liso da mostrare, sulla manica, un vistoso buco all'altezza del gomito.
Di sicuro non è un raffinato aristocratico, né tanto meno un ricco borghese alla moda.
In realtà, il protagonista del dipinto, Juan de Pareja (1606-1670), occupa il ruolo più basso della scala sociale. 
È uno schiavo
Da anni è al servizio di Velázquez e lavora come assistente nel suo studio, dove, giorno dopo giorno, svolge i compiti più umili: pulire, mescolare i colori, preparare le tele, o fissare i telai. 
Finora la sua è stata una vita di quelle che lasciano poche tracce.
I documenti ne parlano appena: si sa che è nato in Andalusia e che è un "morisco", un discendente di quegli arabi, rimasti in Spagna dopo la Riconquista, convertiti a forza al cristianesimo e che spesso hanno alimentato, soprattutto nel sud della Spagna, il mercato degli schiavi.
Quando Velázquez lo ritrae, Juan de Pareja ha poco più di quarant'anni.
Siamo nel 1650 e entrambi si trovano a Roma: il pittore è stato incaricato da Filippo IV di acquistare dipinti e sculture per decorare le sale ancora disadorne dei palazzi reali. 
Velázquez non ha intenzione di trattenersi a lungo in Italia, ma ha deciso, comunque, di portare con sé il suo schiavo: pensa che potrà essergli utile, non solo come aiutante, ma anche come modello.
In effetti ha pensato di esercitarsi a ritrarlo, quasi fosse uno studio per una testa dal vero, in vista di una prestigiosa commissione che spera di ottenere quanto prima: il ritratto ufficiale del pontefice Innocenzo X. 
Non appena finisce la tela, decide di esporla, come prova della sua abilità, nella mostra organizzata, come ogni 19 marzo, sotto il portico del Pantheon dalla Congregazione dei Virtuosi, a cui si è iscritto fin dal suo arrivo a Roma. 
Il successo del ritratto va la di là delle aspettative. 
Stando a quello che racconta nel 1724, nelle sue "Vite dei pittori spagnoli", lo storico e critico d'arte Antonio Palomino: "il dipinto è elogiato da tutti i pittori provenienti da diversi paesi che dicono che le altre immagini della mostra siano arte, mentre questa sola è verità". 

Velázquez è, dunque, riuscito nel suo intento: con una pennellata veloce, una gamma di colori limitata, una grande economia di mezzi e l'uso di una luce capace di definire le forme, è arrivato a restituire non soltanto l'aspetto, ma il carattere stesso del suo servitore. 
Con una verità che gli consente, al di là delle barriere sociali, di mostrare la simpatia e il rispetto che prova verso il suo modello.
Per lui quel dipinto rappresenta la conferma della sua capacità di ritrattista: sa di essersi guadagnato l'ammirazione dei colleghi e degli intenditori d'arte, tanto che, non appena nominato membro dell’Accademia di San Luca, ottiene  la sospirata commissione per il ritratto del pontefice (qui). 
Il soggiorno romano gli ha portato bene e, a questo punto, può dirsi davvero soddisfatto.

E Juan de Pareja? 
Anche per lui quel ritratto rappresenta una svolta: pochi mesi dopo, nel novembre del 1650, Velázquez decide di affrancarlo con un atto legale, che stabilisce, come unico obbligo, quello di continuare a lavorare nel suo studio per altri quattro anni. 
Saranno anni importanti che gli serviranno per fare esperienza e diventare, oltre che fedele collaboratore dell'artista, anche pittore in proprio (qui).
Da allora in poi, può dirsi padrone della sua vita.
Ma se è vero, come afferma William Shakespeare, che "ogni schiavo ha nelle mani il potere di rompere le sue catene", probabilmente quel potere Juan de Pareja lo ha avvertito già nel momento, in cui si è visto, per la prima volta, nel ritratto di Velázquez.
C'è da pensare che, proprio allora, si sia reso conto che quel dipinto avrebbe consegnato all'eternità dell'arte, grazie al suo sguardo orgoglioso e fiero, l'immagine stessa della sua dignità di uomo. E che in quell'istante non si sia più sentito  inferiore, né schiavo, ma, finalmente e per sempre, un uomo libero.









Ancora due curiosità: la prima l'omaggio che  Salvador Dalì rende in questo dipinto del 1960 al ritratto di Velàzquez. 
La seconda, la cifra record di oltre cinque milioni di dollari, con cui la tela fu acquistata dal Metropolitan Museum (qui




Suzanne Valadon e Raminou: la pittrice e il gatto

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Un gatto rosso tigrato che guarda perplesso, tra una tenda e un mazzo di fiori, in questa tela del 1919, ora in collezione privata. 


Lo stesso gatto, seduto con un atteggiamento regale tra un tappeto variopinto e un drappo di tessuto, in un dipinto del 1920, ora in collezione privata. 


Di questo gatto dall'aria battagliera conosciamo il nome, Raminou. 
Sappiamo poi che la sua padrona è la stessa pittrice che lo ha ritratto: Suzanne Valadon (1865-1938).
Probabilmente i due si sono incontrati, agli inizi degli anni '20, nel quartiere parigino di Montmartre, dove, tra vicoli, piazzette e scalinate, i gatti la fanno ancora da padroni (ne ho parlato qui). 
In realtà, non sappiamo come sia cominciata la loro convivenza, ma sarebbe bello pensare che Raminou non sia stato un viziato micino da salotto, ma un gatto di strada e che, come spesso succede negli innamoramenti, i due si siano scelti per somiglianza,  riconoscendo di avere in comune un' indomabile selvatichezza. 
È vero che del passato di Raminou non abbiamo alcuna notizia; conosciamo bene, invece, la vita randagia e senza regole di Suzanne.

Nata in una famiglia poverissima, ha dovuto cavarsela da sola, fin da bambina.
Montmartre dove si è trasferita con la madre, si è adattata, da subito, all'atmosfera di quel quartiere vivace, che mescola casette, botteghe e orti, ai caffè e ai cabaret frequentati da artisti e da borghesi in cerca di emozioni
Sfrontata e sicura di sé, già a dodici anni ha fatto tutti i mestieri, da pasticcera, a fiorista a trapezista da circo. 
Quando circola per la strada, con il suo fisico perfetto, gli occhi azzurri, la pelle di porcellana e i capelli che gli ammiratori definiscono "del colore del cognac" non passa, certo, inosservata. 
I primi a notarla sono gli artisti che hanno i loro studi a Montmartre. A quindici anni comincia a fare la modella per un maturo pittore, Puvis de Chavannes, con cui presto divide non solo l'atelier, ma anche il letto. 
Non è l’unico: da allora le sue relazioni amorose faranno scandalo, dalla storia con Renoir, al tentativo di suicidio per Toulouse Lautrec, alla passione per Eric Satie. 
Ma lei delle chiacchiere se ne infischia e non cambia il suo modo di essere. 
Piuttosto, cambia nome: al lezioso Marie Clémentine, con cui è stata battezzata, sostituisce il più esotico Suzanne, suggerito dalla scherzosa definizione di "Susanna tra i vecchioni" coniata per lei da Toulouse Lautrec a proposito delle sue frequentazioni  di artisti non più giovani. 
Nel 1883 mette al mondo un figlio, che alleva orgogliosamente da sola e a cui dá il suo cognome finché non  sarà riconosciuto, qualche anno dopo, dal giornalista spagnolo Miguel Utrillo. 
E continua intrepida ad andare avanti. 
Per qualche tempo sembra trovare pace nel matrimonio con un ricco agente di cambio. Ma dieci anni di vita tranquilla sono troppi per lei. 
Si annoia e "la noia è come una lebbra": scrive a un'amica. 
Ha voglia di riprendersi la vita e lo fa davvero, nel 1914, quando scappa con un uomo di venti anni più giovane di lei, André Utter, elettricista e pittore a tempo perso. 
Con lui e con il figlio, Maurice Utrillo, anche lui pittore, che, con le sue vedute di Montmartre, guadagna molto più di lei, forma quello che i più malevoli definiscono un "trio infernale", per cui eccentricità, eccessi e notti passate a bere sono un'abitudine. 

Un'esistenza fuori dagli schemi, la sua, in cui, fin dall'inizio, l’unico punto fermo, è stata la pittura: "da sempre ho voluto dipingere per riuscire a fermare la vita"- dice di se stessa. 
E lo ha fatto, trovando la maniera  che più le assomiglia, partendo da quelli che considera i suoi punti di riferimento, Gauguin e Van Gogh.
Negli atelier dei suoi amanti, poi, ha cercato sempre di catturare qualcosa della loro tecnica e del loro modo di dipingere: "ho avuto grandi maestri, da cui ho preso il meglio- ammette- ma da sola ho creato me stessa e ho detto ciò che avevo da dire".
Di tutti gli artisti che ha conosciuto il misogino e caustico Degas, è l'unico che non ha cercato di sedurla, ma che, invece, l'ha incoraggiata, convincendola a dedicarsi esclusivamente alla pittura: "sei dei nostri- pare le abbia detto- e devi pensare solo a lavorare". 
Lui che detesta, come Suzanne, ogni "buonismo" di maniera, le ha fatto il complimento di definire i suoi dipinti "cattivi" per le loro linee dure, i colori stridenti, le superfici piatte, le forme sottolineate da contorni neri e per il loro realismo quasi brutale. 
A Suzanne quella definizione piace e ha continuato a lavorare, con quella stessa "cattiveria", dipingendo tutto quello che ha intorno, a cominciare dai gatti (i suoi primi soggetti) e passando, poi, ai ritratti, ai nudi di donna, alle nature morte.

Dal 1919, il suo modello preferito è Raminou. 
Per lui recupera tutta l'energia e la vivacità della sua pittura come in questo dipinto del 1920 intitolato "Louison e Raminou", ora in collezione privata, in cui il verde dell'abito della donna sembra scelto apposta per far risaltare il rosso del pelo del gatto.


O come in questo con "Miss Lily Walton"del 1922, ora in collezione privata, dove il protagonista  è sempre lui, tanto che, nella stanza scura e ingombra, spicca sulle ginocchia della malinconica modella come l'unico elemento di vita. 


Oppure, quando è raffigurato da solo, come in questo dipinto del 1922, ci guarda imperscrutabile con i suoi occhi dorati dello stesso giallo del panno, su cui è sdraiato. 


Sembra che  Suzanne in quel gatto dall'aria indomita abbia ritrovato un po' se stessa
Ma anche Raminou si sente bene con lei, tanto che, stando a qualche testimonianza dell'epoca, lo si scopre a partecipare, completamente a suo agio, alle innocue quanto chiacchierate eccentricità  della sua padrona, come quella di mangiare caviale tutti i venerdì per onorare il digiuno canonico, o di girare per Montmartre a bordo di una carretta tirata da un asino.  

Intanto gli anni passano e, nel 1932, in questa tela in collezione privata, troviamo un  Raminou vecchio e malandato, che ha perso un po' della sua fierezza, mentre si riposa accoccolato al sole, su un tavolo da giardino.



Sarà il suo ultimo ritratto. 
Anche Suzanne, ormai pittrice nota e apprezzata, si ritira dalle battaglie della vita per offrirsi un'esistenza più regolare e serena.
Forse con un po' di rimpianto per quel periodo, in cui aveva condiviso con Raminou pittura e vita quotidiana, ritrovando in quel gatto tigrato un riflesso del suo stesso desiderio di  libertà. 


In una foto del 1919 Raminou è sulle ginocchia di Suzanne, tra Maurice Utrillo (a sinistra) e André Utter





I Mesi degli Arazzi Trivulzio: giugno

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Le giornate lunghe, il calore del sole, l'aria dolce della sera ci dicono che siamo ormai a giugno. 
È il sesto mese dell'anno ed è arrivato il momento di vedere cosa ci riserva la sesta immagine del calendario che ho scelto per quest'anno: i dodici arazzi del Ciclo Mesi, conservati nel Castello Sforzesco di Milano, commissionati agli inizi del Cinquecento dall'allora governatore della città, Gian Giacomo Trivulzio ed eseguiti dalla manifattura di Vigevano, su disegno di Bartolomeo Suardi detto il Bramantino (1465 ca-1530).



L'arazzo con Giugno è il più danneggiato della serie:  lo sfondo è stato in gran parte rifatto nel corso di un restauro settecentesco. 
Come avviene di solito, la scena è inquadrata da una cornice con gli stemmi dei Trivulzio e delle famiglie ad essi imparentate.
In alto, al centro, spicca il grande stemma dei Trivulzio mentre ai lati, compare la raffigurazione del Sole e del Cancro, segno zodiacale del mese. 
Il verde delle foglie degli alberi carichi di ciliegie, che dominava nel mese di maggio, si trasforma qui nei colori dell'estate: il giallo del grano maturo e il rosso del baldacchino che copre lo schienale del trono. 
Giugno siede al centro, come un antico re, incoronato da una ghirlanda di foglie di quercia e con in mano uno scettro.
Il caldo e la bella  stagione sono arrivati e le messi nei campi sono pronte per la mietitura, come spiega l'iscrizione in lettere capitali nella targa ai piedi del trono:
"Tondere prata messibus/ falcem aridis supponere/ spe aequa labori agrestibus/ dat iunius cura annua: giugno consente per cura annua agli agricoltori, con una speranza pari alla fatica di tagliare i prati e di falciare le messi asciugate (dal sole)"
A sinistra, i contadini vestiti con corte tuniche all'antica e a piedi nudi, sono impegnati, con i loro falcetti a lama ricurva, nel duro lavoro della mietitura; del gruppo fa parte anche una donna che tiene in mano un bastone.


A destra, gli uomini sono occupati in un'altra attività agricola tipica del mese, quella della fienagione. 
I particolari sono resi con una tale accuratezza da raffigurare perfino- alla cintura dell'uomo con la tunica blu- un bossolo portacote, cioè il recipiente che conteneva la pietra per affilare la lama della falce.
Sullo sfondo, due carri tirati da buoi trasportano il fieno.
Come nelle altre scene del Ciclo, Bramantino unisce citazioni dall'antichità classica, nelle vesti o nel trono di Giugno, a notazioni più realistiche, come l'espressione stanca del volto dell'uomo in primo piano che sembra falciare, spossato dalla fatica.

In basso, due secchi colmi di latte, una tovaglia, su cui sono posati  quattro pani alle estremità e, al centro, una cosiddetta zucca del pellegrino, usata come contenitore per l'acqua, compongono una frugale tavola per il pasto dei mietitori. 
E, inseme, formano una sorta di astratta natura morta che conferisce a tutta la scena il carattere di una raffigurazione cristallizzata e senza tempo.








Un approfondimento delle vicende storiche e dell'iconografia degli arazzi è in G.Agosti e J.Stoppa, I Mesi del Bramantino, ed.Officina Libraria 2012.

Padre e figlia: il "Ritratto di Clara Serena Rubens"

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Una piccola tela (37x27 cm) conservata a Vaduz nella collezione del principe del Liechtenstein




Il ritratto di una bambina di cinque o sei anni con le guance arrossate e i capelli un po' spettinati. 
Il volto spicca sul fondo grigio-verde e sull'ampio colletto bianco dell'abito, appena abbozzato, illuminato da piccoli tocchi di luce sul naso e sulla fronte.
La bambina non sembra in posa per un ritratto ufficiale e non ha nemmeno l'aria intimidita. Anzi, lancia uno sguardo malizioso e accenna un sorriso complice, senza alcuna soggezione.
Per forza! Chi la ritrae è suo padre, Pieter Paul Rubens (1577-1640). 


Siamo nel 1616, la bambina si chiama Clara Serena (Clara in onore della nonna materna). Nata nel 1611 è la figlia maggiore di Rubens e di Isabella Brant. 
I due si sono sposati nel 1609, lei appena diciottenne e lui più vecchio di una quindicina d'anni; tutti dicono che si è trattato di un matrimonio d'amore, anche se- sussurrano- conveniente per tutt'e due, tra un pittore ormai affermato e la figlia di uno dei più influenti dignitari della città.
Al tempo del ritratto, Rubens, insieme alla famiglia (nel frattempo è nato anche un altro figlio), dopo aver vissuto qualche anno a casa dei suoceri, si è trasferito nella nuova comoda abitazione che si è fatto costruire in uno dei quartieri più signorili di Anversa.
All'epoca, è uno degli artisti più famosi d'Europa: avere un suo dipinto è diventato per molti uno status symbol. 
Di sicuro, non deve più cercare commissioni, anzi, ha qualche problema a portare a termine tutte quelle che gli vengono richieste, dai ritratti, ai dipinti sacri e mitologici, alle grandi decorazioni per le chiese. 
Ormai si comporta come un signore di quelli che ha conosciuto nel suo lungo soggiorno italiano, soprattutto nel periodo in cui è stato al servizio dei Gonzaga, svolgendo per loro anche delicati incarichi diplomatici. 
La nuova casa l'ha progettata lui stesso sull'esempio delle nobili dimore italiane: mentre la facciata sulla strada e l'abitazione vera e propria sono nel tradizionale stile fiammingo, lo studio ha una facciata che sembra un palazzo del Rinascimento. 
Le due sezioni sono unite da un bel giardino di statue e di rose e da un portico monumentale, a cui, negli anni successivi, aggiungerà una galleria per le sculture. 
Insieme formano un edificio ispirato all'antichità, che- ammettono anche i più malevoli- non ha pari nell'Anversa del tempo. 

Nello studio, Rubens riceve i suoi illustri visitatori, non solo committenti, ma anche appassionati d'arte, filosofi e scienziati. 
Lì, ha organizzato il suo atelier con metodi da piccola industria, impiegando, per far fronte alle commissioni, un gran numero di collaboratori. 
Lì, compare nella sua veste ufficiale e un po' pomposa di uomo colto, che parla varie lingue, sempre ben abbigliato, educato a stare alla pari con ricchi borghesi e aristocratici.
Ma il luogo dove, probabilmente, si sente più a suo agio è la parte privata della casa, quella destinata alla famiglia, dove ha previsto tutte le comodità: stanze piastrellate in bianco e nero, ampi camini, belle camere con letti ad alcova, una comoda sala da pranzo e, dappertutto, robusti armadi pieni di stoviglie di peltro o di bella biancheria, segno visibile della prosperità familiare. 
É in quelle stanze che- c'è da immaginarselo- Clara gioca con la vivacità della sua età e chissà che, a volte, non si spinga  fino allo studio, attratta dal rumore delle voci e dall'odore di olio e di vernici.
Forse un giorno è arrivata allegra e tutta di corsa proprio lì, nello studio,  tanto che Rubens ha deciso di ritrarla subito, più velocemente possibile, cercando solo di restituire nella tela la spontaneità di quel momento.
Il ritratto, con tutta probabilità, gli è stato richiesto dai nonni materni per avere un ricordo della bambina, dopo il trasferimento nella nuova casa, tanto che, qualche anno dopo, figurerà descritto negli inventari appeso a una parete del loro salotto buono.

Per Rubens, abituato alle commissioni ufficiali, alle lunghe ore di posa alle chiacchiere obbligate, quel ritratto destinato alla famiglia, rappresenta un momento di distensione, in cui, fuori da ogni retorica e da ogni intento celebrativo, può usare tutta la sua facilità di dipingere, in completa libertà, senza filtri, con una freschezza e un'immediatezza che tradisce tutto il suo affetto.
Per questo, trascura l'abbigliamento, che nei ritratti ufficiali era un segno importante di ruolo sociale: qui non c'è nessuna trina e nessun fiocco, solo un volto di bambina, raffigurato da vicino, in primo piano. 
E in quel volto Rubens mette tutta la sua capacità di usare la luce e il colore e tutta l'abilità del suo pennello, restituendoci un'immagine vera della tenerezza e dell'intimità del rapporto tra padre e figlia.
Mentre nelle centinaia di lettere della sua corrispondenza rivela molto poco dei suoi sentimenti, in questo ritratto non solo lascia trasparire, ma quasi si abbandona alle emozioni. 
Ma è troppo pittore (e grande pittore) per non consegnarci anche un capolavoro.

Clara Serena morirà qualche anno dopo, nel 1623, a soli dodici anni. 
Della sua breve vita, nessuna traccia nei documenti: l'unica testimonianza resta affidata alla pittura del padre che ha saputo fissare per sempre un momento di amore e di gioia condivisa.






Proprio nella casa di Rubens (la Rubenshius), ora museo, è aperta ad Anversa dal 28 giugno al 28 settembre una mostra  che raccoglie tutti i ritratti dei familiari sotto il titolo di "Rubens privato" (qui)

L'arte di maritare tre figlie, ovvero "The Ladies Waldegrave" di Joshua Reynolds

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Un ritratto di Joshua Reynolds (1723-1792): “The Ladies Waldegrave”, ora conservato a Edimburgo alla National Gallery of Scotland.
Sullo sfondo di una tenda rossa e di un balcone aperto su uno scorcio di paesaggio, tre giovani donne vestite di bianco con le loro parrucche incipriate siedono quietamente intorno a un tavolo intente a ricamare. 
I volti, imbiancati di cipria, sono ravvivati da un tocco di rosso sulle guance. 


Le tre giovani sono sorelle, figlie di Lord Waldegrave e di Lady Maria Walpole: la ventenne Carlotta Maria è quella che tiene in mano una matassa di seta, la diciannovenne Elizabeth Laura avvolge con attenzione il filo, mentre la più piccola, la diciottenne Anna Horatia, è impegnata in un merletto.
Siamo nel 1780 e la madre delle ragazze, Maria, allora Duchessa di Gloucester, con qualche decennio di anticipo sulla Mrs.Bennet di "Orgoglio e pregiudizio" di Jane Austen, ha in testa un pensiero fisso: trovare marito alle figlie. 
In effetti, all'epoca, la concorrenza tra le giovani aristocratiche è spietata e, in più, sulla duchessa di Gloucester pesa un passato non proprio "comme il faut". 
Figlia illegittima di Edward Walpole e della sua chiacchieratissima amante è stata cresciuta nella famiglia del padre. 
Bella, anzi, "l’incarnazione stessa della bellezza", stando alla definizione coniata dallo zio Horace Walpole, è riuscita a fare un bel matrimonio, sposando il più anziano e assai meno avvenente Lord Waldegrave. 
Ma, purtroppo, è rimasta vedova giovanissima con tre figlie piccole da tirar su. 
All'epoca del ritratto, la bella Lady Maria si è risposata, da qualche anno, con il Duca di Gloucester, fratello minore del re, ma il matrimonio è stato osteggiato dalla famiglia reale che, in un primo momento, ha addirittura bandito la coppia dalla corte. 
Anche se i rapporti con il re sono migliorati, qualche ombra è rimasta e in una società dove conta soprattutto la rispettabilità, anche un ombra è di troppo. 

La duchessa sa bene che, nella sua situazione, trovare un buon partito per le tre figlie di primo letto non sarà facile: quella che sta per intraprendere è una vera e propria battaglia e, come in tutte le battaglie, ha bisogno di una strategia. 
Da madre previdente, comunque, ha già in mente un piano e si è procurata anche un alleato nello zio, Horace Walpole. 
I due concordano sul fatto che i balli, le feste, o le scampagnate, insomma, le occasioni "canoniche"di incontro con nobili scapoli, non sono sufficienti: per superare le rivali più agguerrite occorre un'idea in più.

Una soluzione per ottenere il massimo risultato c’è, anche se costosa: commissionare un ritratto delle tre ragazze al più celebre ritrattista del tempo, Joshua Reynolds, ed esporlo a Strawbery Hill, la dimora di Walpole, famosa in tutta Europa per la sua architettura neo-gotica e frequentata da uomini della migliore società
Niente di meglio che appendere alla parete un ritratto che mostri il fascino delle ragazze e la loro disponibilità ad accasarsi in modo confacente, ma che non sia né sfacciato, né troppo esplicito.
Joshua Reynolds, allora artista acclamato e, per di più, Presidente della Royal Accademy of art, sa bene cosa fare. 
Comincia col dispiegare nel dipinto non solo tutta l’abilità acquisita nel corso del un lungo soggiorno in Italia, dove ha studiato i grandi maestri del passato, ma anche la capacità di elaborare, nei suoi ritratti, immagini lusinghiere in grado di  rappresentare gli aspetti migliori dei suoi modelli.
Impiega, poi, ogni sforzo per realizzare una composizione che convinca i futuri corteggiatori che le tre sorelle saranno mogli perfette per ogni gentiluomo

Innanzitutto- dettaglio non da poco- tutt'e tre sono più che graziose.
Nella sua tela, dunque, fa sì le giovani donne incarnino, come meglio non si potrebbe, l'ideale della bellezza dell’epoca. 
Sia pure aiutata da un’abbondante spruzzata di cipria, la loro carnagione appare del candore imposto dalla moda del tempo. 
Il bianco delle vesti allude in maniera discreta (ma non troppo) a un'altra qualità indispensabile per una giovane ammodo: l'illibatezza. 
E, poi, sceglie di non  raffigurare le ragazze in ozio né tanto meno mentre chiacchierano o si dedicano a svaghi sconvenienti, ma di rappresentarle nell'attività più consona a delle giovani tranquille e virtuose quali sono: il ricamo. 
Belle, educate, operose: le qualità richieste a una moglie ci sono tutte. 

Ma, per fortuna, il ritratto, nelle mani di un vero artista, diventa ben di più di un avviso pubblicitario
Da gran pittore qual è, Reynolds avvolge le sue modelle nella luce e nel colore, crea, col suo pennello, contrasti e armonie luminose come il bianco su bianco delle morbide vesti di mussolina contro il candore della pelle e fa del dipinto un capolavoro
Il ritratto, esposto alla Royal Academy nel 1781, è un vero successo, per il pittore e, soprattutto, per Lady Maria che vede avverarsi, poco dopo, le sue più rosee speranze: Carlotta Maria sposerà il cugino Waldegrave, Elizabeth Laura un ricco duca e Anna Horatia un valoroso ammiraglio. 
Insomma, grazie anche alla pittura, il lieto fine sarà degno di un romanzo dell'epoca.






I fiori di Rebecca Louise Law

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Oggi nessun racconto, solo immagini
In questi giorni di fine giugno, quando la fioritura primaverile è finita e- almeno a Bruxelles- quella estiva si fa ancora attendere, ho pensato di rivestire il blog dei colori delle composizioni floreali di Rebecca Louise Law, "un'artista inglese che compone installazioni scultoree, usando materiali naturali", come lei stessa si definisce. 
Come in questa "The Yellow flower", per esempio.  


Figlia di un giardiniere, che le ha trasmesso l'amore per le piante, dopo aver frequentato la facoltà di belle arti dell'università di Newcastle, ha scelto di creare le sue opere, usando esclusivamente fiori e di esplorare, così, il rapporto tra uomo e natura.
Dapprima, ha cercato di ricreare, in piccole composizioni sotto campane di vetro, le nature morte della pittura fiamminga, poi è passata a installazioni più grandi e complesse, che  ha esposto in gallerie d'arte e centri culturali di tutto il mondo.

Le sue opere richiedono un gran numero di fiori essiccati e lunghe ore di lavoro per montarli, con un  leggero filo di rame, secondo un disegno che ne esalti qualità e colori.
I risultati che ottiene sono spettacolari.
Come qui, nel "Flower Garden" creato a Londra nel 2014, con più di quattromila fiori secchi che ricadono dall'alto come una pioggia colorata 



Oppure qui, in un'installazione intitolata "Outside In ", realizzata, da gennaio ad aprile del 2014, per il Viacom Centre a Times Square a New York, dove decine di volontari hanno collaborato con lei, scordando il freddo e la neve di fuori per infilare nel filo di rame e sospendere al soffitto migliaia di fiori variopinti 





Nel 2014, a Londra, per la  Guildhall Library ha scelto  di creare due cascate di ottomila papaveri rossi,  che, con il loro colore vivace, contrastassero col bianco immacolato delle pareti


Sempre a Londra, nella Royal Academy, ancora  nel 2014, nella sua "White tulips",  ha pensato di appendere al soffitto duemila tulipani bianchi, che  ben si armonizzano con l'arredamento ottocentesco:




Invece, alla Coningsby Gallery, i colori variopinti dei garofani e dei crisantemi evocano, forse, quel prato pieno di fiori e di margherite che, come racconta lei stessa, le ha dato la prima idea di riproporre nelle sue opere la fragile bellezza dei fiori.



Per ricreare, all'Onassis Cultural Centre di Atene, tra settembre 2014 e giugno 2015, la magia e la  spontaneità di un "Grecian Garden", sono stati necessari erbe e fiori di ventisette varietà diverse




A Bruxelles, al Teatro de la Monnaie,  nel 2013 grandi ortensie blu, sospese, come un aereo sipario,  tra palcoscenico e platea,  hanno aumentato la suggestione della musica





C'è un  tale incanto in queste installazioni che poco importa stabilire se siano arte, design o chissà cos'altro. A classificare ci pensino pure i critici. 
In giornate  non facili, come ogni tanto capita di trascorrere, a me le opere di Rebecca Louise Law hanno regalato sempre un momento di pausa e di leggerezza.
E non è poco.








Per informazioni sulla biografia e le opere di Rebecca Louise Law un link è qui 


I Mesi degli Arazzi Trivulzio: luglio

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Nella serie dei dodici arazzi con il Ciclo dei mesi, conservati nel castello sforzesco di Milano, commissionati agli inizi del Cinquecento dall'allora governatore della città, Gian Giacomo Trivulzio ed eseguiti dalla manifattura di Vigevano su disegno di Bartolomeo Suardi detto il Bramantino (1465ca-1530), luglio è il mese della trebbiatura.


Come negli altri arazzi della serie, la scena è inquadrata da una cornice con gli stemmi dei Trivulzio e delle famiglie ad essi imparentate. 
Al centro spicca il grande stemma dei Trivulzio, mentre ai lati compare la raffigurazione del Sole e del Leone, segno zodiacale del mese. 
Il leone, rappresentato con la coda tra le gambe, sarebbe, secondo alcuni studiosi, un'allusione alla recente sconfitta della Repubblica di Venezia, simboleggiata dal leone di san Marco, ad opera delle truppe capitanate da Gian Giacomo Trivulzio. 

Il mese di Luglio è rappresentato al centro in piedi su una sorta di ara classica, con indosso un leggera tunica estiva e a piedi nudi. 
Nella mano sinistra tiene una cornucopia piena di spighe. 
In basso, nella parte anteriore dell’ara, è visibile l’iscrizione:"Messem areis crepantibus/ sudore suavi rusticus/ terit dat aure segregat / ac horrea implet iulius. Luglio fa trebbiare ai contadini le messi al crepitio delle aie (risonanti ) di soave fatica, le separa (dalla pula)e ne riempie i granai". 

A destra e a sinistra, i contadini a piedi nudi e con le tuniche legate in vita, sono intenti a battere le spighe per farne uscire i chicchi col correggiato, uno strumento costituito da due bastoni di diversa lunghezza uniti da una striscia di cuoio. 
In alto, a sinistra i chicchi di grano vengono setacciati e misurati con una mina, un recipiente di forma cilindrica composto da assi di legno rinforzate da fasce di ferro, usato fino al secolo scorso nelle campagne lombarde, per misurare granaglie e cereali. 
A destra, invece, i covoni, pronti per la battitura, sono accatastati e disposti con le spighe verso l’alto in modo da non far uscire i chicchi.  
Sullo sfondo della scena le torri colombaie e gli edifici, ricordano quelli monumentali della "Sforzesca", la grande tenuta nei pressi di Vigevano dove Ludovico il Moro aveva impiantato un'azienda agricola modello, in cui promuoveva attività sperimentali di coltivazione, come quella dei gelsi per l’allevamento dei bachi da seta e che era passata, da poco, tra le proprietà di Gian Giacomo Trivulzio. 

Ancora una volta, scegliendo accuratamente il soggetto del Mese, il governatore di Milano vuole ribadire che, sotto il suo dominio, città e campagna vivono un periodo di pace: la trebbiatura e l’abbondanza di grano nei granai allontana lo spettro della fame. 
Bramantino, nei cartoni preparatori per gli arazzi, ha trasformato le attività agricole del mese in una astratta coreografia. 
Alla confusione, al calore, alla polvere della trebbiatura come realmente avveniva nelle aie e nei campi, ha sostituito un palcoscenico, in cui le spighe per terra e i correggiati sollevati in alto costituiscono una sorta di reticolato geometrico in cui ogni contadino sembra fissato alla sua posizione.
I gesti si immobilizzano e il disordine della vita quotidiana si trasforma in un'ordinata e nitida immagine senza tempo.








Un approfondimento delle vicende storiche e dell'iconografia degli arazzi è in G.Agosti e J.Stoppa, I mesi del Bramantino , ed.Officina Libraria 2012

I Mesi degli Arazzi Trivulzio. agosto

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Dopo un mese intero di assenza torno a scrivere sul blog, giusto in tempo per non perdere l’abitudine di vedere cosa ci riserva il mese che sta per cominciare nella serie dei dodici grandi arazzi con il Ciclo dei mesi attualmente conservati al Castello Sforzesco di Milano.
Commissionati agli inizi del Cinquecento da Gian Giacomo Trivulzio, allora governatore di Milano, i grandi arazzi di circa cinque metri di lato, furono eseguiti dalla manifattura di Vigevano su disegno di Bartolomeo Suardi detto il Bramantino (1465 ca-1530).
Ed ecco qui il mese di Agosto 


La scena, come al solito, è inquadrata da una cornice con gli stemmi dei Trivulzio e delle famiglie ad esse imparentate ed è sormontata, in alto al centro, dal grande stemma dei Trivulzio. 
Ai lati, compaiono le raffigurazioni del Sole e della Vergine, segno zodiacale del Mese, rappresentata come un angelo che tiene tra le mani il caduceo, il bastone alato con i due serpenti attorcigliati, legato alla rappresentazione del dio Ermes o Mercurio e simbolo di pace e di prosperità. 
Sullo sfondo di una grande piazza rinascimentale, Agosto è raffigurato al centro, seduto su un trono, vestito all'antica e incoronato di pampini e foglie di vite. Nella mano destra tiene un cratere, il grande vaso che, nell'antichità, serviva a mescere il vino nei banchetti e poggia i piedi su due meloni, la frutta tipica della stagione adatta, a quanto si dice, a dissetare dalla calura.
Nel gradino del trono si legge "Bacchi sacris vindemiam / Augustus augurat, terit / milium novisque fructibus/ mero et calorem temperat: Agosto trae auspici di vendemmia con i riti di Bacco, sgrana il miglio e tempera la calura con i frutti freschi e col vino"

È indubbio, a questo punto, che tutta la scena sia dedicata al vino.
A destra, in effetti, è rappresentata la fabbricazione delle botti destinate a contenere il vino nuovo.
Mentre, in alto, i buoi ancora aggiogati hanno probabilmente appena terminato la trebbiatura del miglio, alcuni giovani, vestiti con corte tuniche, preparano i cerchi con cui verranno chiuse le doghe delle botti e i vincastri, i rami di salice che verranno usati per legarli. 
In primo piano, un ragazzo, seduto sopra i cerchi già pronti raffigurati con uno di quegli arditi scorci prospettici cari a Bramantino, guarda verso lo spettatore.

A sinistra la scena è di tutt'altro genere. 
Qui, nessuna attività agricola, solo ozio.
Sulla tavola ci sono ancora i resti di un frugale pasto a base di meloni, ma abbondantemente innaffiato dal vino. 
Un uomo in piedi versa il vino rimasto nel fiasco capovolto che tiene tra le mani sulla schiena di un giovane addormentato con la testa reclinata sul tavolo, mentre i due personaggi sullo sfondo si affrontano con gesti concitati. 
Ubriacatura, indolenza, rissosità: ce n'è abbastanza per leggere nella scena un’esortazione a non abusare del vino, ma anche, forse, a non concedersi troppe pause dal lavoro dei campi.
Anche il vecchio seduto con una fiasca in mano e il giovane nudo addormentato, rappresentati in primo piano ai piedi del trono d'Agosto, sembrano mettere in guardia da un uso eccessivo del vino. 


In basso al centro, su un tappeto a rombi colorati, una natura morta di uva, fichi e meloni disposti a terra o su due vassoi riconcilia con la stagione, in cui la frutta matura al sole e il freddo e il buio dell’inverno sono ancora lontani










Un approfondimento delle vicende storiche e dell'iconografia degli arazzi è in G.Agosti e J.Stoppa, I Mesi del Bramantino, ed. Officina libraria 2012

Tra luce e colore: il viaggio di Delacroix in Marocco

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L'11 gennaio del 1832 una spedizione diplomatica guidata dal conte de Marny parte da Tolone a bordo della nave "La Perle" alla volta del Marocco: la Francia ha appena conquistato l'Algeria e il re Luigi Filippo vuole intrattenere col Sultano marocchino rapporti di buon vicinato.
Alla missione partecipa un giovane che non ha niente a che fare con la diplomazia: è un pittore di trentaquattro anni,  già considerato come uno dei principali esponenti del movimento romantico e che solo due anni prima ha fatto discutere tutta Parigi con la presentazione del suo dipinto "La libertà che guida il popolo". 
È Eugène Delacroix (1798-1863)


Quel giovane dagli occhi e dai capelli neri, che si ritrae con un'aria da avventuriero, viene descritto dai suoi compagni di viaggio come "qualcuno che ha del talento, dello spirito e un eccellente carattere
In realtà, dietro quell'aspetto un po' sfrontato, si nasconde un temperamento di ferro, "una passione immensa, raddoppiata da una volontà formidabile", come dirà di lui, qualche anno dopo, Charles Baudelaire.
Delacroix, approfittando di qualche conoscenza, si è imbarcato in quella spedizione con un grande entusiasmo: da un po' di tempo aveva voglia di lasciare Parigi e - lui che in genere preferisce la vita casalinga e il lavoro nel suo studio - ha deciso di intraprendere quel viaggio per visitare quello che chiama "l'Oriente mediterraneo" di cui sognava da anni.

Fin dal loro sbarco a Tangeri, i diplomatici e il loro seguito sono accolti con un susseguirsi di ricevimenti, di cerimonie o di spettacoli equestri. 
Gli spostamenti, però, non sono di tutto riposo: si viaggia in carovana a cavallo a a dorso di cammello e spesso ci si deve accampare dove capita.
Delacroix non si lamenta mai dei disagi: è di una curiosità insaziabile e tutto per lui è fonte di meraviglia.
Appena arrivato, appunta nel suo diario:"Mi sento stordito da quello che vedo: è come se stessi sognando". 
Quel favoloso Oriente, che tante volte aveva immaginato, si rivela ora ai suoi occhi come un mondo di incanti: "il pittoresco qui abbonda - racconta - è un luogo fatto per i pittori...La bellezza è dappertutto, non la bellezza raffigurata nei quadri alla moda, ma qualcosa di più semplice e primordiale".
Le sensazioni che prova sono tante e, da pittore qual è, non ha altro modo per fermarle che riempire, uno dopo l'altro, i piccoli taccuini che ha portato con sé e che non abbandona mai.



In quei piccoli quadernetti (il più grande è alto circa 20 cm) disegna tutto quello che vede e consegna, giorno per giorno, le sue impressioni, descrivendo i paesaggi, le strade sassose, l'abbigliamento degli uomini e delle donne o i particolari delle architetture delle case.
Disegna dappertutto in pagine confuse, in cui accumula piccoli schizzi e scritte che integrano i disegni, in un disordine che tradisce tutta la sua eccitazione.
A volte lascia una pagina bianca, a volte riempie anche i margini, a volte gli capita di tenere il taccuino al contrario.



Non smette di disegnare nemmeno quando è a cavallo: ha trovato la maniera di fissare il taccuino alla sella e, in quella scomoda posizione, continua a scrivere, anche se con una scrittura un po' tremolante e a eseguire i suoi schizzi con la paura di lasciarsi sfuggire anche un solo particolare e il timore che qualcosa, comunque, resti fuori: "Come potrò rendere - scrive- questa strana sinfonia di profumi, questi sentori d'ambra, di chiodi di garofano e di spezie, queste fragranze che si sovrappongono?".
La sera, con calma, completa gli schizzi, dà una risposta alle domande sui nomi o sui luoghi che si era appuntato e colora i disegni ad acquerello.
Oppure traccia su fogli di album più grandi qualche scena che vuole riprodurre con maggior cura, come le corse con i cavalli che lo appassionano e che considera una manifestazione di coraggio e di vitalità


  
Gli abitanti di quei luoghi, con i loro caffettani o i loro turbanti lo esaltano per la loro bellezza pura e senza affettazioni, per la loro fierezza e per la loro dignità. Tanto che gli sembra di riscoprire tra la gente che incontra per strada, più vera e autentica, l'essenza stessa della classicità;
"Qui è bello come ai tempi di Omero - spiega -...Roma è qui" e aggiunge: "mentre camminano per le strade, questi uomini hanno l'aria di consoli romani, di Catone o di Bruto e non gli manca nemmeno l'aria sdegnosa degli antichi padroni del mondo"




Delle donne ammira la bellezza ombrosa e, quando può, disegna i loro voliti, gli abiti o i gioielli



Ma quello che , soprattutto, lo impressiona è la luce, una luce nitida e chiara a cui non era abituato, una luce che rivela la natura dura e aspra del paesaggio del deserto, dove "perfino l'ombra prende dei riflessi turchesi"



Cinque mesi dura il viaggio e sette sono i taccuini che Delacroix riempe (di questi ne sopravvivono ora solo quattro: uno al Musée Condé a Chantilly e gli altri tre al Louvre).
Quando torna a Parigi, teme che i suoi schizzi, spontanei e frettolosi, saranno "come alberi sradicati dal terreno che occupano" e che finiranno per diventare solo l'eco di un ricordo.



Si inganna. Il futuro lo smentirà, perché proprio in quei taccuini troverà, da allora in poi, la sua fonte di ispirazione: in quei mesi passati in Marocco la sua visione dell'arte è profondamente cambiata. 
Prima di lui l'Oriente, pur tanto alla moda, era trattato nei dipinti del tempo come un decoro da teatro. 
Grazie ai suoi schizzi Delacroix crea un nuovo vocabolario che conferisce alle sue ambientazioni un nuovo spessore e una profondità fatta di osservazioni di vita vissuta.



E, poi, ci sarà un'altra importante conseguenza: la luce e il colore entreranno prepotentemente nelle sue opere.
Fin dai primi giorni del viaggio, quello che chiamava "il piacere dell'aria e della luce" lo aveva obbligato, già nei suoi schizzi, a schiarire la tavolozza e a inserire il colore. Non tornerà più indietro.
Com'è stato notato, dopo il suo soggiorno in Marocco, nei suoi quadri "il sole caccia, una volta per tutte, le ombre fumose del romanticismo"
Il suo destino d'artista sarà, dunque,  legato a quella luce abbagliante e a quei colori intensi, che studierà nei loro effetti ottici e che cercherà costantemente di riprodurre.
Saranno quei colori che lo faranno diventare, come afferma Cézanne, "la più bella tavolozza di Francia", rendendogli, da pittore a pittore, uno degli omaggi più sentiti e ammettendo che "noi dipingiamo tutti grazie a lui".




I colori degli uccelli: "The Birds of America" di John James Audubon

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Due girifalchi bianchi su uno sfondo di cielo blu in questo acquerello (cm 95x64) conservato alla New York historical society: un'immagine vivida e potente, sospesa tra accuratezza scientifica e poesia.


L'autore, John James Audubon (1785-1851), è di quelli che hanno dietro una storia. Ed è una gran bella storia.
Nato ad Haiti, figlio illegittimo di un ufficiale della marina, si trasferisce col padre in Francia, dove apprende i primi rudimenti di pittura nell'atelier di Jacques-Louis David. 
Ma la sua passione è un'altra: forse memore delle teorie di Rousseau del ritorno alla natura ma, soprattutto, grande camminatore, si inoltra tutti i giorni nelle campagne e nei boschi, col suo taccuino di schizzi, per osservare il mondo degli uccelli, un mondo che lo appassiona sempre di più, fino a diventare per lui una sorta di ossessione.
Nel 1803, appena diciottenne, si imbarca per Stati Uniti per evitare l'arruolamento nell'esercito napoleonico. 
I primi tempi nel suo nuovo paese non sono facili: il mondo degli affari non è fatto per lui, tanto che inanella una serie di fallimenti che culminano in un soggiorno in carcere per debiti. 
Ne esce  solo con quello che ha indosso, ma con i suoi pennelli e i suoi album da disegno. 
Ed ecco che, con l'aiuto della moglie, concepisce un progetto che tenga conto della sua abilità di disegnatore e della sua passione per gli uccelli.

Decide di illustrare, in un modo più preciso e attento al naturale di quanto si fosse fatto fino ad allora, tutti gli uccelli viventi del Nord America e, in più, a grandezza reale: un compito immenso che, da allora in poi, occuperà gran parte della sua vita.
Nel 1820 sale su una barca sul fiume Ohio per dirigersi verso il Western Kentucky, la "frontiera" di allora, e parte per la sua grande avventura. 
I pittori che fino ad allora avevano raffigurato gli uccelli dipingevano per lo più i loro soggetti impagliati  e montati su trespoli. 
Anche Audubon, in caso di necessità, non ha scrupoli a uccidere e impagliare uccelli per sezionarli e studiarli.  Ma non è ciò che vuole: la sua idea è piuttosto quella di raffigurare le sue amate creature dei cieli dal vivo, cogliendole nel momento in cui sono in azione, mentre cercano il cibo, cacciano o si dispongono per il volo. 
Un progetto non facile che esige, oltre a un grande talento, ore e ore di osservazione da vicino (il binocolo farà la sua comparsa solo intorno al 1850) e lunghi appostamenti e  che gli impone, da allora in poi, una vita da nomade. 
Percorre, dunque, con nient'altro che i suoi materiali di artista e, beninteso, il suo fucile, un territorio sterminato dall'Ohio alla Florida alla Louisiana, seguendo il corso dei fiumi con la piroga, camminando o cavalcando tra  boschi e praterie, dalle montagne alla costa.
La sua idea è quella di ritrarre gli uccelli, in acquarelli enormi (che arrivano fino a un metro per sessantacinque). Li farà poi inciderli su lastre di rame  e stampare sui fogli più grandi prodotti all'epoca, ritoccandone i colori a mano.
Finanziare una simile impresa non è facile: Audubon, dopo aver cercato invano di trovare fondi negli Stati Uniti, parte nel 1826 per l'Inghilterra.
Là, con la sua aria spavalda riesce ad affascinare un paese dove l'ultimo libro di James  Fenimore Cooper sui "Pionieri" va a ruba e  dove i più lo vedono come un romantico eroe da romanzo. 
Con la sua giacca di pelle di daino e i capelli lunghi fino alle spalle sembra l'incarnazione dell'America selvaggia. 
Nelle sue conferenze delizia  il pubblico con i suoi racconti  che vengono riproposti a puntate sui quotidiani. 
Quegli inglesi abituati alla città o a campagne ridisegnate dall'uomo si stupiscono di fronte a quelle avventure di viaggio, alla narrazioni di lotte con i lupi, di duelli con gli indiani di notti all'addiaccio, ma anche di incontri con cacciatori, con legnaioli o con balenieri.
Ma soprattutto restano ammaliati da quelle immagini di uccelli strani e bellissimi che sembravano usciti da un mondo selvaggio e alieno. 
Come questo "Pink Flamingo":


Insomma, la trasferta inglese è un successo: là raccoglie i fondi che gli consentono di arrivare, dopo quasi vent'anni di lavoro, a pubblicare, nel 1830, "The Birds of America":  quattro volumi con ben 453 tavole con la raffigurazione quasi cinquecento specie nell'inusuale formato  di 100x70.
Ed ecco che in quella, che è subito definita come la più grande enciclopedia ornitologica illustrata, aironi, girifalchi, gru, pappagalli colorati, cigni o picchi  sembrano riprendere vita. 


Audubon è stato capace di cogliere la natura di ognuno di loro e di catturarne qualsiasi azione, si tratti di un'aquila che piomba in volo su una lepre, di un colibrì che succhia il nettare di un fiore o di un gruppo di colorati pappagalli appollaiati sui rami.



Con la sua abilità ha trasformato l'illustrazione ornitologica in una sorta di ritratti di uccelli. Lavorando sulla luce e sulle velature dell'acquerello, usando pastelli, pigmenti metallici e inchiostri differenti, è riuscito a fissare per sempre brevi istanti della vita di quelle creature libere e fragili. 
"La mia scuola furono i campi e le foreste": sostiene Audubon, ma intanto, si mostra informato sulle ultime tendenze artistiche, tanto che il taglio asimmetrico di qualche sua immagine sembra addirittura  tener conto di quelle stampe giapponesi che cominciano a circolare in Europa.
Al confine tra scienza e arte, le sue  tavole, dai colori intensi e luminosi, con i corpi di uccelli impregnati da quella che Audubon chiama "la dolcezza del piumaggio", formano una sorta di poema figurato.
Un poema che oggi ripercorriamo col rimpianto per un tempo, in cui non si immaginava che buona parte di quelle specie si sarebbero estinta, in cui i cieli, i boschi e le campagne erano percorsi dai voli  e risuonavano di cinguettii e in cui la natura, anche se iniziava a subire le prime offese, era ancora in gran parte intatta.





Gli acquerelli di Audubon, che ho conosciuto grazie al blog di un'amica (qui), sono conservati  alla New York Historical Society of America. I 119 esemplari della prima edizione del suo libro per lo più sono conservati in istituzioni pubbliche: quiè un link dove se ne possono scorrere le illustrazioni. 
I rari che sono sul mercato hanno raggiunto quotazioni altissime: uno è stato battuto in asta per 11,5 milioni di dollari qualificandosi come il libro più caro al mondo (qui). La  National Audubon Socitey (qui) creata dopo la sua morte, è diventata un pilastro della difesa del territorio


I Mesi degli Arazzi Trivulzio: settembre

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Siamo già a settembre ed è arrivato il momento di vedere cosa ci riserva il mese nel calendario che ho deciso di "sfogliare" quest'anno: gli arazzi con il Ciclo dei mesi, attualmente conservati al Castello Sforzesco di Milano.
I dodici grandi arazzi furono commissionati, agli inizi del Cinquecento, dall'allora governatore di Milano Gian Giacomo Trivulzio ed eseguiti dalla manifattura di Vigevano su disegno di Bartolomeo Suardi detto il Bramantino (1465 ca-1530).
Ecco, dunque, come appare, tessuto nei colori variopinti dell'arazzo, il mese di settembre di cinque secoli fa:


La scena, in gran parte danneggiata e restaurata, è inquadrata, come al solito, da una cornice con gli stemmi dei Trivulzio e delle famiglie ad essi imparentate ed è sormontata, al centro, dal grande stemma dei Trivulzio. 
A sinistra, compare la raffigurazione del Sole, mentre a destra, i segni zodiacali del mese, Scorpione (al posto della Vergine) e Bilancia, sono fusi in un'unica rappresentazione.
Come negli altri arazzi del ciclo, al centro in basso, nella parte anteriore del basamento, si legge un'iscrizione che descrive le caratteristiche del mese: "September uvas ut coquit/vina et parat dat aucuopi/ gratas voluptates bona/ et mensium recolligit: settembre, come fa maturare le uva, così prepara anche i vini, dà all'uccellatore  gradite soddisfazioni e raccoglie i buoni frutti di mesi”.

In un'epoca ancora legata ai tempi e ai ritmi delle attività agricole, il protagonista del mese non può essere che il vino.
In effetti, la personificazione di Settembre come un giovane nudo con i sandali rossi, grappoli d’uva in testa e i fianchi cinti da un ramo di vite  richiama le antiche rappresentazioni del dio Bacco.
Non bastasse, tutta la scena è dominata, da un gigantesco torchio vinario di legno, lo strumento indispensabile per la spremitura dell'uva, che, nell'interpretazione di Bramantino, diventa un'enorme struttura architettonica collocata in una sorta di piazza con un pavimento a scacchi variopinti.
Al centro, la grande vite del torchio è fatta ruotare da quattro improbabili contadini vestiti con corte tuniche all'antica. 

Anche in secondo piano sono rappresentate attività legate alla produzione del vino. 
L'uva arriva, a sinistra, caricata su un carro guidato da buoi ed è fatta defluire, attraverso uno scivolo, dentro una grande vasca. 
destra, alcuni giovani, sporchi del rosso del mosto, si occupano della pigiatura del vino e delle botti. 

Alle due estremità, invece, sono seduti una donna e un uomo in abiti signorili: lei tiene in mano un grappolo d'uva, mentre lui regge un falco addestrato per la caccia.
Anche se l'arazzo è rovinato e  alterato, proprio nella figura maschile, l'ipotesi è che si tratti del committente della serie, Gian Giacomo Trivulzio e della moglie Beatrice d'Avalos.
All'epoca, in effetti, non è raro, che i nobili signori assistano a una delle occupazioni agricole   più importanti dell'anno.
La vendemmia e la pigiatura del mosto coinvolgono tutti e, generalmente, finiscono con una delle poche feste, in cui i contadini possono riposare dalla fatica quotidiana e rallegrarsi che il vino nuovo possa essere un segno di abbondanza e di prosperità.







Un approfondimento delle vicende storiche  e dell'iconografia degli arazzi è in G.Agosti e J.Stoppa, I Mesi del Bramantino, ed. Officina libraria 2012


Il "Ritratto di Van Gogh" di Henri Toulouse-Lautrec

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Se è vero che tutti i ritratti raccontano una storia, quella che racconta il "Ritratto di Van Gogh" (pastello su carta, 54x45), ora al Museo Van Gogh di Amsterdam, realizzato da Henri Toulouse-Lautrec nel 1887, è, soprattutto, una storia di amicizia. Una bella amicizia.



Quando i due artisti si incontrano nel 1886 nello studio del pittore Fernand Cormon, uno ha ventidue anni e l'altro trentatré. 
Il più giovane, Henri Toulouse-Lautrec è un aristocratico, discendente da una delle più antiche famiglie di Francia. A Parigi, dove è arrivato da tempo e dove ha frequentato le scuole migliori, ha trovato conferma alla sua vocazione per la pittura. 
Della carriera militare che il padre aveva sognato per lui, non se ne è fatto di nulla.
Una malattia congenita, con l'aggravante di una caduta da cavallo, gli ha causato una vera e propria deformità fisica: il busto è normale, ma le gambe sono rimaste quelle di un bambino.
"È così piccolo che dà le vertigini":- è la battuta che circola tra i più maligni. 
Ma lui alle battute ci è abituato e riesce a non mostrarsi ferito: cerca di rimanere imperturbabile - sempre elegante nei modi  come nel vestire - e di rispondere con un'ironia feroce che arriva fino al sarcasmo.
Fernand Cormon non ha molta fiducia nelle sue doti: va dicendo a tutti che può diventare  un buon disegnatore o un caricaturista, ma non un artista con la A maiuscola.
Toulouse-Lautrec, comunque, è sicuro di quello che vuole e prosegue caparbiamente per la sua strada.

Anche Vincent Van Gogh, che frequenta l'atelier di Cormon per approfondire lo studio del nudo e dell'anatomia, è convinto che la pittura sia la sua vita. 
Dopo aver provato vari mestieri e dopo aver cercato di realizzare la sua vocazione religiosa facendo il predicatore, si è persuaso che solo nella pittura potrà trovare una pausa alle sue inquietudini e realizzare tutte le sue aspirazioni. 
È arrivato a Parigi nel marzo 1886 ed è ospite del fratello Theo, che, come sempre, gli passa un piccolo sussidio, con cui riesce, bene o male a sopravvivere.
Parla bene francese, anche se non ha perso la pronuncia gutturale del suo olandese originario, ma non ha certo la finezza d'espressione, né lo spirito di Lautrec. 
In genere è piuttosto silenzioso, quasi scontroso. Di vestire bene e di frequentare il gran mondo non gli interessa: vuole solo esercitarsi, imparare e capire fin dove può arrivare.

due, apparentemente, non potrebbero essere più diversi.
E, invece, qualcosa li unisce: oltre all'amore inesauribile per la pittura, condividono la stessa sofferenza, l'uno per la sua fragilitá fisica, l'altro per quella mentale, che, come una ferita aperta, li isola dagli altri e li condanna alla solitudine. 
Fin dall'inizio si sono capiti e sanno che, quando sono insieme, non hanno bisogno di parlare di se stessi.
I discorsi che condividono sono quelli sull'arte. E c'è da immaginare che le loro discussioni inizino nell'atelier di Cormon, per proseguire, fino a notte fonda, al tavolo di qualche caffè, magari di fronte a un bicchiere di assenzio. L'assenzio, la cosiddetta "fata verde", la bevanda che stordisce e che consola, è diventata per tutt'e due un'abitudine, di cui non riescono a fare a meno.

Ed è proprio con l'immancabile bicchiere d'assenzio che Lautrec ritrae l'amico, mentre, con  il viso smunto e i capelli rossi, perso tra i suoi pensieri, fissa un punto indistinto davanti a se, solo e chiuso nelle sue preoccupazioni.
Un'immagine malinconica e, allo stesso tempo, partecipe e affettuosa, per cui Lautrec ha adottato, in segno di omaggio, uno stile più vicino possibile a quello di Van Gogh.
Un'immagine, dove è riuscito a cogliere  tutta la profondità di una personalità tormentata e a fornire la testimonianza di una grande consonanza di emozioni e di sentimenti.
Del legame che traspare da questo ritratto non restano documenti scritti. 
C'è, però, un episodio successivo che attesta quanto fosse forte.

Nel gennaio del 1890, per l'apertura del "Salon des XX" a Bruxelles, Theo è riuscito a far pervenire da Parigi  due dipinti del fratello. 
Quei quadri così violenti e tormentati più che emozionare, come Theo sperava, scandalizzano non solo il pubblico, ma anche gli artisti. 
Un pittore simbolista belga, all'epoca piuttosto noto, Henri De Greux, non appena li ha visti, ha cominciato a urlare che lui non accetterà mai di esporre i suoi dipinti insieme a quella pittura "esecrabile". 
Lo grida più volte e nessuno lo zittisce, nemmeno quando, durante il pranzo ufficiale prima dell'inaugurazione, minaccia di ritirare le sue opere; anzi, qualcuno comincia perfino a dargli ragione. 
"Esecrabile"è una parola troppo forte da sopportare per Toulouse Lautrec, che là, seduto a quel tavolo, lo ascolta e probabilmente ripensa a quell'amico così fragile, alle loro discussioni notturne, alla sua fatica di dipingere, al suo impegno, alla voglia di dare in ogni sua opera qualcosa di sé. 
E, soprattutto, a quella pittura che ammira tanto e che per lui rappresenta un modello.
No, non lascerà che Van Gogh sia offeso. Le parole, però, proprio allora gli vengono meno.
A quel punto, tira fuori tutto il suo coraggio e sfida De Greux a duello.
È una decisione azzardata, ma è pronto a portarla fino in fondo. 
Quel duello non si farà, perché De Greux preferirà scusarsi, ma, intanto, Lautrec ha ottenuto lo scopo di far cessare gli insulti e di far sì che quella pittura strana e intensa riceva l'attenzione che si merita.

Non sappiamo quale sia stata la reazione di Van Gogh alla difesa di Lautrec; sappiamo però che i due si incontrano, ancora una volta, circa sei mesi dopo, il 6 luglio del 1890, quando Van Gogh passa per un giorno da Parigi per vedere il fratello. Vive, allora, a Auvers-sur-Oise, dove si è rifugiato dopo il periodo turbolento passato ad Arles e dove ancora alterna momenti di entusiasmo a crisi di depressione. 
Sarà l'ultima volta in cui si vedranno.
Pochi giorni dopo Van Gogh si toglierà la vita. 
Toulouse- Lautrec, invece, continuerà la sua. 
Sarà  pittore - e un grande pittore come aveva sempre voluto - ma sarà anche inseguito dai suoi fantasmi e dalla sua sofferenza, fino alla morte, nel 1901, ad appena trentasette anni.






I Mesi degli Arazzi Trivulzio: ottobre

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Siamo in ottobre, il decimo mese dell'anno, l'ottavo secondo il calendario romano, da cui ha preso il nome. 
Vediamo, dunque, cosa ci riserva questo mese, in cui domina ormai l'autunno, nel calendario che ho scelto per quest'anno: gli arazzi con il Ciclo dei Mesi, attualmente conservati al Castello sforzesco di Milano.
I dodici grandi arazzi (larghi più o meno cinque metri) furono commissionati agli inizi del Cinquecento, da Gian Giacomo Trivulzio, all'epoca governatore di Milano, alla manifattura di Vigevano ed eseguiti su disegno di Bartolomeo Suardi detto il Bramantino (1460 ca- 1530).
Ed ecco, allora, l'ottobre di cinque secoli fa


Come sempre, la scena è circondata da una cornice con gli stemmi dei Trivulzio e delle famiglie ad essi imparentate. 
In alto, al centro, appare il grande stemma dei Trivulzio, a sinistra è raffigurato il sole, mentre a destra c'è la rappresentazione congiunta dei due segni zodiacali del mese: Bilancia e Scorpione.
Nel cartiglio in basso al centro una scritta illustra le caratteristiche del mese: "Frumenta terra reddere/ stabilisce, apibus et vineis / cavere pomisqe inseri/ October arborem et monet: Ottobre spinge a restituire il grano alla terra, a provvedere alle stalle, alle api e alle vigne e anche a innestare gli alberi". 
Il mese, che nella scritta appare ancora pieno di attività agricole con la terra che non ha ancora cessato di dare frutti, è rappresentato come un uomo maturo vestito di rosso, un fattore che amministra, con oculatezza, le sue terre.

Seduto a un tavolo, tra i libri e un calamaio, sorregge sulle spalle un bastone a cui sono legate due chiavi e, con la mano sinistra, indica il sole, mentre, con la destra, sorregge un grande registro aperto su una pagine in cui è scritto: "Vanoto da Monça de dare per seme de fromento i(m)p(re)stato a dí 10 de otobre III" . 
Il registro non è affatto opera di fantasia: Bramantino probabilmente ha avuto occasione di accedere davvero ai registri relativi ai possedimenti del Trivulzio e si è appuntato i dati di un vero documento: Giovanni da Monza (Vanoto de Monça), attestato mentre sta ripagando le sementi che ha ricevuto in anticipo, figura nei documenti come un fittavolo di Gian Giacomo Trivulzio fino dal 1506. Un elemento preciso e reale, dunque, che l'artista mescola al suo gusto per le ambientazioni fantastiche, i richiami alla classicità e gli scorci prospettici.



La scena si svolge in una sala con un pavimento a scacchi colorati e un loggiato aperto sull'esterno.
A sinistra avanzano tre contadini, uno porta un setaccio, un altro delle pere, mentre il terzo guarda verso lo spettatore. 
A destra, invece, ci sono tre donne, una arriva con un grande cesto di nespole sulla testa, la seconda regge un mazzo di carote e la terza indica la personificazione del mese.
Sullo sfondo, sosta un altro folto gruppo di contadini, mentre dal loggiato si intravedono due alberi ormai privi di foglie.
In primo piano, sono ben visibili quattro panieri che formano una sorta di natura morta autunnale, pieni come sono dei prodotti agricoli del mese, da una parte pere e mele cotogne, dall'altra carote e rape: la prova che l'autunno è ancora un buon periodo per i raccolti e che ottobre può dirsi un mese di abbondanza. 
Anche il committente degli arazzi, Gian Giacomo Trivulzio, probabilmente si ritiene soddisfatto di una rappresentazione che dimostra come le sue terre siano floride e  i contadini ben preparati ad affrontare i rigori dell'inverno.







I Mesi degli Arazzi Trivulzio: novembre

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Sembra ieri che l’anno è cominciato e, invece, siamo già a novembre, il nono mese secondo il calendario romano da cui ha preso il nome.
È, dunque, arrivato il momento di guardare cosa ci riserva la penultima scena del calendario che ho scelto per quest’anno: gli arazzi con il Ciclo dei Mesi ora conservati nel Castello Sforzesco di Milano, commissionati agli inizi del Cinquecento, da Gian Giacomo Trivulzio, all'epoca governatore della città, alla manifattura di Vigevano ed eseguiti su disegno di Bartolomeo Suardi detto il Bramantino (1460 ca- 1530).
Ed ecco, come appare il novembre di cinque secoli fa


Come succede in tutti gli altri arazzi, la scena è circondata da una cornice con gli stemmi dei Trivulzio e delle famiglie ad essi imparentate. 

In alto, al centro, appare il grande stemma dei Trivulzio, a sinistra è raffigurato il sole, mentre a destra compare la rappresentazione del segno zodiacale del mese: il Sagittario.
Nel cartiglio in basso, sorretto non da un'ara classica come negli altri Mesi, ma da un paiolo di rame ricolmo di polenta chiara, una scritta illustra le caratteristiche di novembre:
"Prata innovat olae cavet/ capris coire dat legit/ glandem arbors lina apparat/ november arma et rustica Novembre rinnova i prati; cura l'olivo, fa accoppiare le capre, raccoglie la ghianda della quercia, prepara il lino e gli strumenti agricoli

Al centro, seduto su un tavolaccio, il Mese è raffigurato come un burbero fattore, vestito di abiti pesanti, con i lineamenti grossolani e tanto di pappagorgia che, con un gesto imperioso della mano, dirige una serie di attività legate al mese.
In primo piano, seduti su un tappeto a scacchi colorati, dei bambini vestiti all'antica bevono il latte da delle scodelle o accorrono verso un uomo e una donna che sembrano distribuire loro le scarpe necessarie all'inverno, mentre un'altra donna avanza portando sulla testa un paniere pieno di zoccoli di legno. 
A sinistra, un gruppo di uomini in corte tuniche completate, a volte, da calzabraghe aderenti, si occupa della fabbricazione degli strumenti agricoli dalle vanghe, alle asce, ai forconi e della costruzione dei carri, come dimostrano le due sezioni di ruota che giacciono sul pavimento.
La parte destra  è tutta occupata dalla rappresentazione delle fasi della faticosa lavorazione del lino: gli steli delle piante, già sottoposti a macerazione, una volta essiccati, vengono battuti con uno strumento apposito per liberare le fibre dalle parti legnose. 
Le fibre vengono poi pettinate con pettini dai denti via via più fitti per sciogliere i nodi, in modo da ripulirle il più possibile prima di essere filate.

Come sempre, Bramantino, si mostra ben informato sulle attività agricole, anche se con la sua accesa immaginazione, la sua passione per gli scorci prospettici o le sue ambientazioni all'antica, le sa trasfigurare, trasformandole in scene senza tempo dove elementi realistici si mescolano a elementi di fantasia. 
Così i contadini di Novembre compiono i lavori tipici del mese non all'aperto, ma in un improbabile ampio salone, dove, attraverso un arco, si intravedono gli edifici di una città, mentre, in alto, il sole pallido e malinconico che illumina la scena annuncia già l'arrivo dell'inverno.





Un approfondimento delle vicende storiche e  dell'iconografia degli arazzi è in G.Agosti e J.Stoppa, I Mesi del Bramantino, ed. Officina libraria 2002

Il mondo parallelo di Rodney Smith

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Se c'è una qualità di cui non si ha mai abbastanza è la leggerezza, quella che, come voleva il grande Italo Calvino, non è mai da confondere con la superficialità, né con la sventatezza.
Ed è proprio la leggerezza alla Calvino quella che contraddistingue le foto di Rodney Smith, un grande fotografo americano nato nel 1947, autore di libri, protagonista di mostre e docente universitario. 
Insomma, un fotografo più che famoso, ma che io ho scoperto quasi per caso in questi giorni, mentre navigavo nel grande mare di internet e sentivo, come non mai, il bisogno di distrarmi da quello che succede intorno.
Le sue foto, per lo più in bianco e nero, rigidamente su pellicola e senza alcuna manipolazione digitali, mi sono parse da subito capaci di trasportarmi, quasi per magia, in un suo mondo parallelo, reale e irreale insieme, un mondo a parte, influenzato dal surrealismo e, soprattutto, dalla pittura di René Magritte.

A partire dall'abbigliamento dei suoi personaggi spesso in doppio petto e cappello, impeccabili anche quando spuntano tra le piante di un campo, armati di grandi cesoie


E anche quando si arrampicano su una scala, sempre con grande signorilità, per spiare oltre una siepe


oppure quando, come in un fumetto, cercano di vedere cosa succede dall'altra parte, infilando la testa tra le foglie



e, addirittura, quando, quasi completamente interrati, ma - si suppone- con lo stesso aplomb lasciano intravedere solo lucidi e  pulitissimi stivali.


Quelle di Rodney Smith sono sempre immagini fuori dal tempo, dal frastuono dell'attualità e delle mode passeggere. 
"La musica di oggi è discordante - afferma in un'intervista- l'arte, concettuale o meno, mi sembra volgare; la cultura è poco raffinata, manca di stile e di grazia... Il mondo delle mie fotografie è un mondo fuori del quotidiano: ci obbliga ad aspirare a qualcosa di più e a ricercare la civiltà e il garbo di un sorriso".
Ecco, è proprio il dono di un sorriso quello che Rodney Smith ci regala con immagini che, come questa del 2001 intitolata "Uomini con due scatole in testa", sembrano uscite da un film dei fratelli Marx o del primo Woody Allen


oppure come questa  di strani duellanti che si sfidano, in mezzo all'erba, a colpi di fotografie 


o di questi due cacciatori di farfalle che corrono dietro alle loro lievi prede con abiti bianchi e retini dall'aria ottocentesca


Certamente, in tutti i casi, si tratta di immagini raffinate che rimandanocome ammette lo stesso Rodney Smith, ai grandi maestri della fotografia, da Alfred Stieglitz a Henri Cartier Bresson, se non addirittura alla pittura dell'Ottocento o alla stilizzazione di certe stampe giapponesi.
Basta guardarle una dietro l'altra per lasciarsi affascinare dal misto di ironia e di levità dei suoi personaggi che possono ricordare protagonisti del cinema muto tra Harold Lloyd o Buster Keaton, come questo uomo che quasi  sparisce dietro un megafono


o  questo robusto signore che, in questa foto del 2001, intitolata "Un esercizio molto lento" sembra decisamente poco disposto al movimento 



E che dire poi di questa elegante signora che, nella foto del 2011 intitolata "Viktoria sotto il paralume", sorregge con classe niente di meno un abat-jour?


o di questo incauto passeggero che sembra essersi spinto decisamente troppo oltre


oppure di questo raffinato  gruppo di signori alla moda che, in una foto del 1995, ricompone, come in un balletto, lo "Skyline dall'Hudson River" di New York



L'impressione è  Rodney Smith si diverta spesso a giocare con le nostre sensazioni, cambiando le carte in tavola e spingendoci a guardare la realtà da un altro punto di vista, magari attraverso una lente di ingrandimento


oppure, come uno dei suoi personaggi in questa foto del 2012, arroccati in cima a una scala con un binocolo



L'intento sembra quello di sovvertire i luoghi comuni, di divertirci e di divertirsi a immaginare quanto può essere diverso il mondo se, come in questo autoritratto che tanto somiglia Magritte, lo si osserva non attraverso una macchina fotografica, ma attraverso una fotografia.





Chi vuole saperne di più sul concetto di fotografia di Rodney Smith può visitare il suo sito (qui è il link) o leggere una delle sue interviste (qui) 
Un video con altre foto di Rodney Smith è qui 



I Mesi degli Arazzi Trivulzio: dicembre

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Undici mesi di questo 2015 sono già passati e siamo ormai arrivati al dodicesimo: dicembre 
Non ci resta, dunque, che andare a vedere cosa raffiguri l'ultima scena del calendario che ci ha fatto compagnia per tutto quest'anno: gli arazzi con il Ciclo dei Mesi ora conservati al Castello Sforzesco di Milano, commissionati agli inizi del Cinquecento da Gian Giacomo Trivulzio, all'epoca governatore della città ed eseguiti dalla manifattura di Vigevano, sotto la guida di Benedetto da Milano su disegno di Bartolomeo Suardi detto il Bramantino (1460 ca-1530).
Ed ecco allora come appare dicembre:



La scena, come al solito, è circondata da una cornice con gli stemmi dei Trivulzio e della famiglie ad essi imparentate.
In alto, al centro, appare il grande stemma dei Trivulzio, a sinistra compare il sole, mentre a destra è visibile la rappresentazione del segno zodiacale del mese: il Capricorno.
Nel cartiglio in basso sono descritte le caratteristiche di dicembre: "Gaudere parto cum grege / casa frui ucupet et sues / salire prolis ingerit / December operam inertibus Dicembre dà il modo di rallegrarsi in casa per il gregge appena nato e per l'uccellagione, fa salare il porco e dà da fare ai bambini oziosi"
"In casa": dice, dunque, l'iscrizione. 
E in effetti anche la scena dell'arazzo si svolge al riparo dal freddo dell'inverno, nel chiuso di una grande sala, coperta da volte a botte e con un pavimento ornato da riquadri colorati, mentre, all'esterno, gli alberi sono spogli e solo pochi passanti si aggirano tra i grandi edifici dominati dalle montagne sullo sfondo. 
All'interno, invece, è tutto un via vai di gente, servi e contadini, che sembrano per lo più occupati nelle fasi della macellazione del maiale, l'attività tipica del mese, di cui, però, Bramantino, nei suoi disegni per l'arazzo, ci ha risparmiato i particolari più cruenti. 



Al centro, in basso, sopra un fuoco tenuto vivo da un servo inginocchiato, in un grande pentolone con due mestoli appesi, cuociono le carni destinate alla confezione di salumi e salsicce.
A  destra, due maiali selvatici si stanno avvicinando a un trogolo pieno di ghiande mentre, lì accanto, un servo è già pronto con la grande mazza che servirà a stordirli prima dell'uccisione.
A sinistra, un uomo è occupato a gonfiare le vesciche di maiale, che serviranno poi a contenere lo strutto, come fossero palloncini per divertire i bambini.
In basso, sul pavimento, insieme a una distesa di frutta e verdura di stagione - rape, pere e mele - compare una piccola sedia, una cosiddetta "comoda", destinata ai bisogni dei più piccoli.

In secondo piano, continua l'animazione con tutta una serie di persone che passano, trasportano i maiali o levano in alto coppe piene di vino o, forse, del sangue riservato ai sanguinacci.
L'atmosfera sembra febbrile, quasi si stesse preparando una festa o un rito: in effetti Bramantino, come sempre, mescola elementi tratti dalle attività agricole a quelli ripresi dalla cultura classica. 
E, in questo caso, l'allusione è alle feste dei Saturnali che si celebravano nell'antica Roma tra il 17 e il 21 dicembre, tra banchetti, cortei, licenze e libertà di comportamento. 


Se guardiamo bene,vediamo che il mese stesso, raffigurato come un uomo vecchio che sorregge un falcetto e con i piedi legati da una robusta  corda, è niente di meno che la personificazione di Saturno. 
Secondo la tradizione, nelle feste del mese di dicembre si liberava il dio che doveva riportare sulla terra l'età dell'oro, o meglio, il "beato disordine" dei tempi, in cui  gli dei si mescolavano agli uomini. 
Per il resto dell'anno, per il suo potenziale sovversivo, Saturno rimaneva imprigionato con le caviglie legate da lacci di lana, i cosiddetti "compedes", e veniva liberato solo nei giorni della sua festa, in cui era costume non solo scambiarsi doni ma anche i ruoli tanto che nei banchetti gli schiavi venivano serviti dai padroni.


In questa atmosfera di festa e di gioiosa allegria, i mesi variopinti degli arazzi, voluti da Gian Giacomo Trivulzio per celebrare la "nuova età dell'oro" rappresentata dalla sua signoria sulla città, prendono congedo

Il 2016 è alle porte e per l'anno nuovo, ovviamente, calendario nuovo! 





Un approfondimento delle vicende storiche e dell'iconografia degli arazzi è in:
G.Agosti e J.Stoppa, I Mesi del Bramantino, ed.Officina libraria 2002


I tappeti delle meraviglie di Faig Ahmed

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In questi giorni in cui si avverte dappertutto l'atmosfera delle feste, ho deciso di rivestire il blog, se non di decorazioni natalizie, almeno di immagini piene di vivacità e di colori: quelle dei variopinti e sorprendenti tappeti di Faig Ahmed.
E mai come stavolta le immagini parlano da sole:



Un artista azero, nato a Baku nel 1982, la lavorazione dei tappeti dell'Azerbaijan, talmente famosa da ricevere il riconoscimento dell'Unesco per le tradizioni immateriali, una squadra di tessitori abilissimi e, in più, la voglia di stravolgere e di innovare antichi modelli: sono questi gli elementi che si mescolano, come fili colorati, nei tappeti creati da Faig Ahmed.




Fin da quando ha esposto nel padiglione dell'Azerbaijan alla Biennale di Venezia nel 2007, Faig Ahmed ha deciso di prendere come punto di partenza l'arte antichissima della tessitura del suo paese.
Per creare le sue opere, incerte tra arazzi e sculture, ha pensato di stravolgere e destrutturare i tipici motivi ornamentali dei tappeti azeri, tramandati sempre uguali per generazioni, elaborandoli a computer e mescolandoli, a volte, con schemi decorativi di altre aree geografiche. 
Per realizzare i tappeti trasporta, poi, i suoi disegni digitali su cartoni a grandezza naturale e li usa come modello per farli tessere a un gruppo di esperti artigiani che utilizzano lane pregiate e antichi telai.
Ed ecco che, manipolando e sconvolgendo le decorazioni più consuete grazie alle moderne tecniche di design, crea nuove composizioni che, per esempio, possono ingannare gli occhi con illusorie definizioni dello spazio fino a sembrare quasi tridimensionali.





Oppure riesce a distorcere le forme che gonfiano o lievitano in maniera imprevedibile 




Quando non arriva a trasfigurare i colori, cambiando la dominante del fondo, come fossero usciti da una stampante che stia per finire l'inchiostro







se non trasforma, addirittura, i fili in cascate liquide che sembrano scorrere verso terra trascinando con se ogni disegno 




"Amo essere ostaggio della tradizione: è un test a cui devo sottopormi per sentirmi libero":- afferma Faig Ahmed che, unendo memoria e modernità, lavoro manuale e progettazione, trasforma i suoi tappeti in stupefacenti opere d'arte




Sempre con la voglia di cambiare, anche se nel rispetto di quello che è stato elaborato nel corso dei secoli.




Tappeti magici, dunque, che uniscono modernità e tradizione millenaria e che, col fascino dei loro colori e quel pizzico di ironia che non guasta mai, ci fanno riflettere sul nostro rapporto col passato e sulla capacità di viverlo e di trasformarlo senza distruggerlo.






Per chi vuole saperne di più qui è il link al sito dell'artista: http://www.faigahmed.com/
E qui un'intervista in cui parla del suo lavoro: http://ilmanifesto.info/il-mondo-in-un-tappeto/

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