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OakoAak: il sorriso all’angolo della strada

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Una pausa di leggerezza e senza troppi pensieri: perché no?

Se si sta attenti, camminando, può succedere, di fare strani incontri.
Ecco, proprio là, sullo sfondo di un muro grigio, un’acrobata vestita di rosa, con tanto di ombrellino e scarpette da ballo, che si esibisce, usando come filo, gli anelli di una catena di recinzione:



Oppure, ecco qua una foca che gioca col pallone, nascosta tra le crepe di un muro:



O un giocatore di golf che lancia addirittura un cuore rosso fuoco nel cortile di una fabbrica dismessa:



La ballerina, la foca giocherellona, l'appassionato di golf non sono altro che alcuni dei personaggi creati, qua e là per le città d'Europa, dalla fantasia dello street artist francese OakoAk.
Nel suo sito (qui) spiega che il suo lavoro è nato, soprattutto, dalla voglia di divertirsi (e di divertire i passanti), trasformando in una sorta di gioco le piccole imperfezioni che ha trovato passeggiando per strada. 
Estrosità e senso dell'umorismo gli sono sufficienti per far spuntare in una sconnessione tra marciapiede e asfalto, un'intera carovana di dromedari pronta a partire per le dune del deserto, mentre un ciuffo di erbacce diventa, per incanto, un'oasi:


Oppure per trasformare un banale cestino dei rifiuti in una gabbia che racchiude uno smarrito, quanto avvilito, orso polare:



Come abbia cominciato OakoAk lo racconta così: 
"Siccome vengo da Saint Etienne, una vecchia città industriale che è in corso riconversione, ho provato la necessità di rendere la mia città meno grigia e, allo stesso tempo, più divertente. L’umorismo è sicuramente l’elemento più importante in quello che faccio. 
Cammino molto ogni giorno .. e quando vedo qualcosa di interessante, lo  misuro e lo studio, poi preparo a casa i disegni e le bozze e infine torno per fare il collage. Il mio interesse principale è dare importanza a luoghi e oggetti che le persone non notano più".

Come questo vecchio muro scalcinato, in cui un omino rosso cerca di penetrare (oppure, chissà, di fuggire), con l’aiuto di una scala:


Insomma, non c’è tombino, crepa o  intonaco sbrecciato, con cui OakoAk non si possa divertire. 
Grazie alla sua fervida immaginazione, anche i più banali elementi dell’arredo urbano possono  riservare non poche sorprese.
Chi direbbe mai, per esempio, che un paracarro possa trasformarsi, niente di meno, che nel celebre omino con bombetta di René Magritte?



Oppure che le strisce di un passaggio pedonale siano capaci di animarsi e di dare l'impressione di poter apparire o scomparire sotto i nostri occhi:


Leggerezza, ironia e, sopratutto, forbici e adesivi bastano a OakoAk per compiere la sue piccole magie.
Partito dalla Francia, piano piano, con i suoi scherzosi interventi, è arrivato dappertutto,  dall'Italiaall'Inghilterra, dalla Cina alla Thailandia
Le sue opere non sono mai invasive, né volgari. 
E, oltretutto, hanno anche un grande pregio: quello di essere facilmente rimovibili. 
Non sono dipinte, ma semplicemente incollate e, quindi, del tutto provvisorie. 
"Le mie opere hanno una durata limitata- spiega lo stesso OakoAk- una volta lasciate in un posto e incollate, rimarranno lì fino a che non scompariranno dopo una settimana o due, a volte un po’ di più. Ma a me non importa, io adoro l'idea di un lavoro effimero"
Però, finché sopravvivono, danno l'occasione a chi passa indaffarato e  le osserva anche solo con la coda dell'occhio, di notare un dettaglio a cui non avrebbe mai fatto caso.

Certamente, il suo elicottero non potrà eternamente portare soccorso a chi sembra essersi rifugiato dietro la presa d’aria di una cantina:


Né il fumo continuerà a levarsi, per un tempo indefinito, dalla ciminiera della sua fabbrica:



  
Sono opere lievi, effimere come una bolla di sapone. 
Non hanno la pretesa di essere arte e nemmeno di esprimere chissà quali critiche sociali.
Vogliono solo offrire un sorriso, con una strizzatina d'occhio e un pizzico di ironia: tutto qui.
Ma, di questi tempi, davvero, non è poco.







Per chi voglia vedere altre immagini qui è il link al blog di OakoAk, e qui alla sua pagina Facebook.



Il calendario di pietra: ottobre

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"Dixe ottobre, e' spillo lo vino/vago cercando qual è il più fino/vendo quello a rio sauore (di cattivo sapore/ e per mi bevo lo migliore"(Ballata dei Mesi, XIV secolo)



Eccoci ormai al decimo mese dell'anno, l'ottavo, secondo il calendario romano da cui ha preso il nome: ottobre. 

Negli anni successivi alla Rivoluzione francese, ottobre era diviso tra due mesi: Vendemmiaio fino al 22 e, poi, Brumaio. 
Sono nomi questi che descrivono bene il carattere di questo periodo dell'anno, in cui un autunno ancora pieno di sole può sfumare, d'improvviso, nelle nebbie che preannunciano l'inverno, mentre nel paesaggio, predominano i colori caldi e dorati del rosso e del giallo delle foglie. 

Nei Cicli dei Mesi degli inizi del XIII secolo, di cui pubblico, quest'anno, le immagini, manca, per questo mese, la formella della cattedrale di Ferrara ed è rimasta solo la raffigurazione di Santa Maria della Pieve ad Arezzo. 
Nei campi, ormai, la vendemmia quasi ovunque è terminata, i frutti sono stati raccolti  e  i contadini cominciano a prepararsi per le stagioni a venire. 
Ottobre è il momento della semina.



Il giovane contadino sbarbato delle rappresentazioni precedenti lascia spazio ora a un uomo maturo con una lunga barba, che, per difendersi dai primi freddi, indossa robusti stivaletti, una tunica pesante e un mantello. 

È raffigurato proprio nell'atto di gettare i semi, che tiene stretti nel pugno chiuso: il gesto è quello tradizionale della semina a spaglio, che consiste nello spargere le sementi con la mano nel terreno già preparato.
Nessun altro elemento è presente nella scena, dove solo la posizione delle gambe dell'uomo, completamente assorto in se stesso, suggerisce un lento avanzare. 
Si avverte quasi il rispetto dell'ignoto artista per uno dei momenti più importanti dell' attività della campagna, a cui veniva affidata tutta la speranza di una buona annata futura.
Tutto si concentra in quel gesto misurato e composto, un gesto che, nella dignità e nella essenzialità della raffigurazione, assume una valenza quasi sacra. 
E che nella tradizione più antica era accompagnato dalla benedizione dei solchi e dalle preghiere.

Come un rito austero e solenne che si è ripetuto immutabile nel corso del tempo. Tanto da poter essere descritto- sempre uguale a distanza di secoli- in una delle più belle poesie che, almeno nella mia generazione, si usava imparare a memoria a scuola: quella dedicata da Gabriele D'Annunzio ai "Seminatori". 


Van per il campo i validi garzoni,
guidando i buoi dalla pacata faccia,
e, dietro quelli, fumiga la traccia
del ferro aperta alle seminagioni.

Poi, con un  largo gesto delle braccia, 
spargon gli adulti la semenza; e i buoni
vecchi, levando al cielo le orazioni,
pensan frutti opulenti, se a Dio piaccia.

Quasi una pia riconoscenza umana
oggi onora la terra. Nel modesto
lume del sole, al vespero, il nivale

tempio dei monti innalzasi: una piana
canzon levano gli uomini e nel gesto
hanno una maestà sacerdotale.






Gli Apostoli mancanti: l'"Assunzione della Vergine" di Mantegna nella cappella Ovetari

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La matematica non è (o non dovrebbe essere) un'opinione, nemmeno per gli artisti. 
In effetti, proprio un numero sbagliato è alla base di una storia che riguarda l'"Assunzione della Vergine", eseguita da Andrea Mantegna tra il 1453 e il 1457 per la cappella Ovetari nella chiesa degli Eremitani di Padova.


L'affresco è una delle poche parti superstiti della decorazione della cappella, quasi tutta distrutta da un bombardamento nel 1944 (qui è un link) 
La scena è delimitata da un arco dipinto decorato con motivi di candelabre e cornucopie derivati dall'antichità classica: in alto è raffigurata la Madonna Assunta, circondata da angeli festanti, mentre in basso è collocato un gruppo compatto di otto Apostoli che guardano verso il cielo.
Otto? Ma non dovrebbero essere dodici? 
Contiamo meglio! No,no... sono proprio otto. 
Di sicuro, i numeri non tornano. 

E non tornano nemmeno quando la committente, Imperatrice Ovetari, nel 1457, riesce, finalmente,vedere l'affresco terminato.
Ci mancava solo questa- avrà pensato- come se non bastassero tutti i grattacapi che ha avuto fin da quando, una decina d'anni prima, nel 1448, rimasta vedova, ha dovuto adempiere alle volontà  del marito, che, nel testamento, le ha lasciato una cospicua cifra con il compito di provvedere alla decorazione della cappella di famiglia
Il soggetto è già stato stabilito: le storie di san Giacomo e di san Cristoforo alle pareti e l'Assunzione di Maria nel fondo dell'abside.
Forse Imperatrice Ovetari, all'inizio ha creduto di cavarsela velocemente, assegnando l'esecuzione a due squadre di pittori: da una parte due maestri veneziani già affermati, Antonio Vivarini e il cognato Giovannni d'Alemagna, dall'altra due giovani e agguerriti padovani: Nicolò Pizzolo e Andrea Mantegna, all'epoca appena diciassettenne. 
La doppia commissione, però, invece di agevolarla, le ha complicato la vita. E non di poco.
Intanto, ci si è messo di mezzo il destino con la morte prematura di Giovanni d'Alemagna, la conseguenterinunciadi Vivarini e l'obbligo di sostituirli con altri due pittori, Bono da Ferrara e Ansuino da Forlì
Ma anche con i due padovani le cose non sono andate lisce: avrebbero dovuto andare d'accordo visto che entrambi erano stati a bottega da Francesco Squarcione, dove avevano condiviso l'amore per l'antichità classica e per le complesse ambientazioni prospettiche, ma invece erano nati subito dei contrasti. C'è da dire che tutt'e due hanno un caratterino che definire difficile è un eufemismo. 
Nicolò Pizzolo era già noto, in città, come un insolente attaccabrighe, ma anche Andrea Mantegna, più giovanedi lui di dieci anni, si è rivelato un tipetto da prendere con le molle. Non appena ricevutala commissioneper la cappella è andato a vivereda solo e si è impelagato in una causa brigosissima col suo maestro e tutore, Squarcione, reclamando compensi mai ricevuti e- come se non bastasse- ha preso a litigare continuamente con Pizzolo. 
Mantegna è ambizioso e ha voglia di affermarsi. Sicuro di sé e dei suoi mezzi, ha cominciato a metter bocca su tutti i lavori della cappella. Pizzolo, che, di certo, non è abituato ad avere pazienza, non ci ha pensato due volte ad andare per vie legali e a richiedere un arbitrato che stabilisse non solo la suddivisione dei compiti, ma addirittura quella dei materiali. Insomma, sono andati avanti per un po' con una tensione che si tagliava con il coltello come due- per così dire- "separati sui ponteggi", finché Pizzolo è morto assassinato e Mantegna ha continuato praticamente da solo. 
Se ImperatriceOvetari non ha protestato per la durata dei lavori che, secondo il contratto, dovevano finire in due anni è perché, in fondo, è stata contentadi vedere fiorire, come d'incanto, sulle pareti della sua cappella quello chegià tutti considerano un capolavoro. Gli episodi dellevite dei Santi, ambientati con una rigorosa prospettiva matematica e arricchiti da tutta una serie di citazioni dall'antico, provocano l'effetto, insieme solenne e monumentale, di grandi sculture dipinte.
Di certo, ha provato la soddisfazione di avere puntato su un giovanechesi è rivelato un vero portento. La fama di Mantegna, intanto, si è diffusain tutto il nord Italia. Grazie al matrimonio con la giovane Nicolosa Bellini, figlia di Jacopo e sorella di Giovanni, si è legato con la bottega più prestigiosa di Venezia; le commissioni fioccano e ora sta per essere nominato niente di meno che pittore di corte dei Gonzagaa Mantova, dove è riuscito a strappare uno stipendio di tutto rispetto e condizioni di lavoro invidiabili.
Forse- pensa Imperatrice- ormai non ne può più della cappella Ovetari e con gli Apostoli ha un po' tirato via.

Anche lei,con tutta probabilità, è stanca, ma non vuole essere nemmeno presa in giro. Èvero che con l'Assunzione si dovrebbe chiudere un decennio di lavori, in cui ha sopportato di tutto, complicazioni, tensioni, liti, strascichi giudiziari, perfino la morte e l'assassinio di due dei "suoi" pittori, ma ora basta: ha pagato per dodici Apostoli e dodici devono essere.
Non gli resta che andare in tribunale.
Il giudice, tanto per andare sul sicuro, si affida al parere tecnico di due artisti, Pietro Maggi da Milanoe Giovanni Storiato. 
I due constatano che quattro Apostoli mancano effettivamente  all'appello, ma, tuttavia danno ragionea Mantegna: lo spazio della parete di fondo della cappella, occupata anche dalla finestra, è decisamente troppo stretto e il pittore ha fatto quello che poteva. 
Ci è voluta tutta la sua maestria e la sua abilità prospettica, per stiparvi dentro otto apostoli, mantenendo l'equilibrio e l'armonia della scena
Gli altri proprio non ci stavano: fare di meglio era impossibile.
Imperatrice Ovetari si deve rassegnare. 
I numeri sono numeri- è vero-  ma anche la matematica, alle volte, deve cedere il passo alle ragioni dell'arte. 






Il girasole di van Dyck.

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Mi piacciono i dipinti che raccontano  delle storie.
Mi piace, quando un'opera diventa, come nei racconti di Sherazade nelle "Mille e una notte" una storia, da cui nascono e si dipanano altre storie, altri racconti.
Può succedere.
Per esempio in questa tela, attualmente nella collezione privata del Duca di Westminster.



È l'autoritratto di un grande pittore, Anton van Dyck, datato intorno al 1632.
L'artista ci guarda e ci indica un girasole.
Il fiore, una presenza straordinaria e inconsueta, domina tutta la scena.
Cosa vuol dire? Perché?
Per capire ci vuole un racconto, anzi, un'inchiesta, per cui sarà meglio fornirci di tutto l'armamentario tradizionale: foto, lente d'ingrandimento, testi di supporto. E iniziare l'indagine, partendo proprio dal protagonista.


Il pittore indossa un abito di seta rosso cremisi, è elegante, signorile, con barba e baffi ben curati.
Non c'è niente che alluda alla sua professione, non un pennello o un cavalletto: apparentemente quello che ci guarda dalla tela non è un artista.
È un gentiluomo.

Ma come mai si ritrae così?

Anton van Dyck (1599-1641), al tempo del dipinto, non è e non si sente un pittore qualsiasi.
La sua carriera è stata folgorante come una meteora.
Nato ad Anversa, è concittadino, allievo e, soprattutto, amico di Rubens. Ed è a Rubens, che ne ha apprezzato precocemente il talento, che deve la sua rete di contatti con i committenti più facoltosi d'Europa. 
In un viaggio in Italia, tra Genova, Mantova e Roma, ha avuto modo di vedere i ritratti, di Tiziano e di Raffaello e ha maturato la decisione di specializzarsi come ritrattista.

L'aristocrazia italiana ed europea dell'epoca vuole trasmettere un'immagine, una memoria di sé, che ne rappresenti  il fasto, ma anche il carattere e le doti morali. 
A questa esigenza Van Dyck ha saputo fornire una risposta con i suoi maestosi ed eleganti ritratti a figura intera, di grandi dimensioni, con un'attenzione accurata per la raffinatezza dell'abbigliamento, ma anche con un'analisi psicologica e fisionomica dei personaggi.

Ha avuto da subito un enorme successo, tanto che ben presto ottenere un suo ritratto è diventato la conferma di uno status sociale raggiunto.
Ed è richiesto dappertutto, da sovrani, aristocratici, eredi di grandi patrimoni, militari, cardinali o dame di corte. 
In poco tempi è riuscito a entrare nella cerchia più ristretta dell'aristocrazia e ad assimilarne modi di vita e di comportamento. 
Perché, di certo, occorrono buona educazione, conoscenza dell'etichetta e buone maniere per poter trattare con i re e con i nobili. E anche per occupare con conversazioni adeguate i tempi lunghi delle pose e per convincerli ad assumere i gesti e i contegni più opportuni.
Ecco che così si spiega l'eleganza dell'abbigliamento.

Un elemento, dunque, l'abbiamo chiarito. Ma l'indagine non è finita e la lente, può servire ancora per esaminare da vicino un dettaglio importante, forse la chiave stessa della rappresentazione.
È pesante collana d'oro che Van Dyck mostra con una certa ostentazione.


E qui sarà meglio ritornare alla biografia.
Nel 1632, l'anno del ritratto, l'artista è a Londra, ha trentatré anni  ed è al culmine della fama.
È stato invitato in Inghilterra dal re Carlo I, raffinato amatore d'arte e di pittura, lo stesso che, qualche anno prima, ha acquistato tutta la collezione dei Gonzaga di Mantova. 


Carlo I ammira la pittura di  van Dyck, ma ne apprezza anche le qualità umane. Sa che i committenti se lo contendono ed è disposto a concedergli ogni favore purché resti a Londra: per lui averlo al suo servizio è una questione di prestigio.
Gli offre subito un alloggio principesco e comincia, addirittura, a frequentarne la casa, trattandolo da pari a pari.
Van Dyck si sente a suo agio: possiede carrozze, cavalli di razza, ha al suo servizio uno stuolo di domestici, sa offrire banchetti prelibati per gli esponenti della corte, intrattenendoli con musici, buffoni e spettacoli fastosi.
Non ha problemi economici. Aspira solo a un titolo nobiliare.
Carlo I lo sa e, fin dal suo arrivo, oltre a garantirgli la carica di primo pittore di corte con un lauto stipendio annuo, gli conferisce il titolo di baronetto e lo nomina membro dell'esclusivo Ordine del Bagno.
Gli dona anche una collana d'oro, un simbolo del nuovo status e del favore del sovrano.
Ed è proprio questa la collana che van Dyck mostra, con tanta soddisfazione.
Ormai si sente arrivato: non è solo un pittore, è diventato un gentiluomo.
Ha ricevuto il titolo nobiliare, a cui aspirava e sa di avere più di un motivo per essere grato alla generosità del re.

E ora arriviamo all'altro protagonista del dipinto: il girasole.

Sì, perché il girasole è trattato come fosse un protagonista a pieno diritto.
Non è in sottofondo, né tanto meno è appena accennato: anzi, è grande, tanto da occupare tutta la parte destra della tela.
Van Dyck si volta a guardare lo spettatore e lo indica.

È la prima volta che questo bellissimo fiore, di un giallo intenso, viene rappresentato in pittura.
È un simbolo nuovo, tutto da scoprire.
La mitologia greca, in questo caso, non aiuta: sul girasole non c'è, all'epoca, alcuna leggenda a cui fare riferimento. 
Per forza!  I semi sono arrivati in Europa dall'America solo nel XVI secolo per essere donati al re di Spagna. 
Un regalo particolarmente adatto a un sovrano: per gli Inca il grande fiore è il simbolo del sole e della regalità.

Ma il girasole ha anche una caratteristica ancor più evidente, l'eliotropismo, cioè segue sempre il corso del sole, dal suo sorgere, fino alla fine della giornata.
Ed è proprio questo che ispirerà van Dyck.
La soluzione a questo punto è evidente: elementare, direbbe Sherlock Holmes.
Il grande fiore altro non è che la rappresentazione di van Dyck stesso.
È il simbolo della sua sudditanza e della sua devozione al re.
L'artista, indicandolo, ci fa capire che anche lui- con la stessa costanza e la stessa fedeltà del girasole- seguirà il corso del suo sole: il re Carlo I,  che lo ha colmato di benefici.
Ed esprime la sua riconoscenza con grande dignità, elaborando un simbolo che sia evidente, ma non apertamente comprensibile a tutti. E' un segno della sua intelligenza, della sua sensibilità.
Non si raffigura prostrato di fronte al sovrano- ormai anche lui  è un nobile- ma, con la sola forza dell'immagine, fa comprendere il rapporto di gratitudine che lo lega al re.

Senza piaggeria e con un grande senso di fierezza e di orgoglio, Van Dyck rende omaggio a Carlo I, offrendogli il suo maggiore talento: quello di pittore.
Un omaggio senza adulazione, anzi pieno di dignità.
A questo punto cos'altro c'è da dire? Chapeau !





Eugène Boudin: il "re dei cieli"

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A chi passeggia, nel 1869, sul molo di Deauville può capitare di imbattersi in un uomo tarchiato, con un berretto da marinaio, che passa ore intere a dipingere al cavalletto sotto un  grande parasole bianco. 
Molti lo guardano con curiosità: la pittura en plein air, all’epoca, non è, certo, una pratica diffusa. 
Se qualcuno gli chiede il nome, quel pittore risponde di chiamarsi Eugène Boudin.
Chi, poi, vincendo l’imbarazzo, si china a osservare la tela, può veder nascere sotto il suo pennello, un dipinto come questo, attualmente alla Fondazione Thyssen di Madrid: un gruppo di persone che, su una spiaggia, conversano o contemplano il cielo infuocato di un tramonto estivo


È un periodo quello, in cui i  bagni di mare sono diventati alla moda: piccoli paesi, fino ad allora abitati solo da pescatori, si trasformano in raffinati luoghi di villeggiatura con tanto di grandi hotel, casinò e sale da concerto, frequentati da  gentiluomini in  doppiopetto e da dame in crinolina. 
Boudin, approfittando della moda, è riuscito a farsi un nome come pittore di scene balneari.
La gente ama molto le mie piccole dame sulla spiaggia - scrive nel 1863- alcuni pensano che questi soggetti siano un vero filone d’oro". 
A Boudin, però, di guadagnare con i suoi quadri importa fino a un certo punto, la sua passione è un'altra.
In realtà, ciò che vuole è rappresentare- anche in quelle piccole tele mondane- quello che chiama "il fulgore della luce" e raffigurare il cielo in ogni suo aspetto. 
Come in questa "Scena di spiaggia", ora alla National Gallery di Londra:


Nato a Honfleur in Normandia nel 1824, Boudin ha scoperto tardi la sua vocazione di pittore. Dopo aver lavorato come marinaio, ha aperto un negozio di cornici che gli ha consentito di conoscere molti degli artisti che frequentano quei luoghi da Courbet a Corot. 
Poi, per amore della pittura, ha abbandonato tutto per andare a Parigi, dove, anziché frequentare l’Accademia, preferisce copiare, al Louvre, i grandi maestri veneti e olandesi. 
Ma la vita frenetica della città non piace a quest’uomo dalla pelle olivastra e i grandi occhi celesti, che parla lentamente e a bassa voce e  che ai caffè  e alle infinite discussioni sull'arte, tra fumo di sigari e bicchieri di assenzio, preferisce l’intimità della vita familiare. 
Quando può, torna in Normandia a spostare il suo cavalletto da una spiaggia all'altra. 
Per lui dipingere all'aperto è l'unico modo di lavorare: è convinto che "due colpi di pennello a contatto con la natura valgano più di due giorni di lavoro in uno studio". 
A volte, nei suoi giri si porta dietro un ragazzo molto più giovane di lui, un diciassettenne di cui ha intuito le grandi qualità: Claude Monet. 
Tutt'e due vagano con il loro cavalletto, cercando di fissare sulle loro tele quei cieli costantemente cangianti che si riflettono, differenti ad ogni istante, sulla superficie del mare.
In un periodo, in cui il pubblico ama una pittura nitida  e precisa, Boudin, dipinge senza definire le forme e con una tavolozza sempre più chiara ed evanescente, tanto che i suoi quadri hanno spesso l'aria di essere appena abbozzati. 
Piano piano, nei suoi dipinti, abbassa la linea d'orizzonte e diminuisce la dimensione delle figure che  diventano piccoli tocchi di colore in un mare di luce.


Il pubblico è perplesso, gli artisti e i critici d'arte, invece, colgono la profonda novità dei suoi  cieli immensi.  
Camille Corot lo soprannomina "il re dei cieli" e Gustave Courbet, in genere poco tenero con i colleghi, gli scrive scherzosamente: "Dite la verità: voi siete un serafino. Non ci siete che voi a conoscere il cielo
Intanto Boudin per vivere continua a  dipingere paesaggi, marine o vedute di città e a viaggiare per l'Europa, ma, ogni volta che può, ritorna a ritrarre in innumerevoli piccoli schizzi a olio, a pastello o ad acquerello le diverse condizioni del cielo e la  natura instabile e transitoria delle nuvole.


Sono queste le "bellezze meteorologiche" che incantano Charles Baudelaire, fin da quando scopre, durante un soggiorno in Normandia, la pittura di Boudin.  
Il pittore, taciturno e modesto, non potrebbe essere più diverso dal sulfureo e inquieto poeta; tutt'e due, però, condividono lo stesso amore per le nuvole e per la loro capacità di  invitare al sogno o al viaggio.



In una recensione, Baudelaire descrive, come solo lui sa fare, gli studi eseguiti dall'artista: quelli dove ha annotato con la precisione di un marinaio, l'ora, la stagione e le condizioni del tempo, o quelli che sembrano dipinti sotto un impulso improvviso e che riescono a fermare in pittura "queste nuvole dalle forme fantastiche e luminose,...queste immensità verdi e rosa sospese o sovrapposte, queste fornaci spalancate, questi firmamenti di sete nere e violette arrotolati o lacerati...tutte queste profondità, tutti questi splendori, che– continua Baudelaire- danno alla testa come una bevanda inebriante o come l’oppio”.



Boudin si inoltra nell'esplorazione di "queste magie liquide e aeree", con la tenacia e la caparbietà di chi vuole arrivare, come afferma in una delle sue lettere: "a nuotare in pieno cielo, fino alla tenerezza delle nuvole". 
E, in questa  ricerca, giunge  agli estremi limiti della pittura, fino alla soglia dell'astrazione.



Quello che conta per lui è afferrare l’attimo, l’istante  preciso, in cui un riflesso cambia o la luce varia di colore. 
E lo farà per tutta la vita.




Quando, a Parigi, nel 1894, sente che  è arrivato alla fine, chiede di essere portato a Deauville per vedere un'ultima volta il riflesso del cielo e del mare.
Dopo la sua morte, gli impressionisti lo saluteranno come un precursore, Monet come il maestro a cui deve tutto. 
Ma Boudin non intendeva essere un innovatore e nemmeno cercava riconoscimenti.
Quello che, in fondo, aveva sempre desiderato era solo di "poter navigare libero sul mare e inseguire le nuvole con il pennello in mano".







Gli schizzi di Eugène Boudin, di cui ho pubblicato le immagini, sono attualmente conservati al MuMA di Le Havre  (quiè il link).
Una bella documentazione sulla mostra di Boudin, che si è tenuta da marzo a luglio 2013 al Musée Jacqueamart-André è qui.



Il "ritratto della signora moglie": " La famiglia di Zanobi Troni" di Giuseppe Maria Crespi

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Ci sono dipinti che si impongono all'attenzione quasi con prepotenza, con la forza dei capolavori riconosciuti e altri, invece, che, a un primo sguardo, rischiano di passare inosservati e il cui incanto si lascia scoprire solo dopo, poco a poco.
È questo il caso del "Ritratto della famiglia di Zanobi Troni" di Giuseppe Maria Crespi (1665-1747), attualmente conservato alla Pinacoteca Nazionale di Bologna.


Su un fondo scuro, dominato da sfumature di tinte basate sui toni bruni delle terre e dell'ocra, è raffigurato un gruppo di famiglia. 
Basta poco per accorgersi che è un ritratto molto diverso da quelli a cui ci ha abituato la pittura del Settecento: nessuna posa, nessuna ambientazione, nessuna allusione alla ricchezza o al ceto sociale dei personaggi. 
Non ci sono nemmeno eleganti dettagli d'abbigliamento, né sete, né trine e neppure quelle parrucche incipriate che, all'epoca, vanno tanto di moda.
AGiuseppe Maria Crespi, del resto, le parrucche e i parrucconi non sono mai piaciuti, tanto meno in pittura: ha sempre voluto sentirsi libero dalle convenzioni accademiche e interpretare i generi pittorici e le iconografie tradizionali in completa autonomia (dei suoi affreschi nel Palazzo Pepoli Campogrande di Bologna ho parlato qui).
E in questo dipinto usa la sua libertà fino in fondo.

Siamo negli anni '30 del Settecento, Crespi, ormai, non si sposta più da Bologna, la città in cui è nato e dove è sempre rimasto, tranne qualche viaggio- nel suo periodo di formazione- tra Urbino, Parma e Venezia e un lungo soggiorno a Firenze, dove ha lavorato per Ferdinando de' Medici. 
Il suo stile si è formato, mescolando varie influenze, dall'attenzione alla realtà dei grandi bolognesi del passato- Carracci in testa- al colore dei maestri veneti, alla dolcezza di Federico Barocci e, soprattutto, alla pittura fluida e senza contorni di Rembrandt, di cui è stato uno dei più appassionati ammiratori. 
Col passare degli anni, vive sempre più appartato, lavorando dalle prime luci dell'alba fino al tramonto, nel modesto studio, annesso alla casa dove abita in un quartiere popolare della città. 
Alle cerimonie o alle occasioni mondane preferisce, da tempo, la solitudine, anche se i suoi visitatori raccontano che la sua conversazione non è mai stata così piena d'arguzia e d'umorismo. 
Invece di sottoporsi alle frequentazioni, a cui lo obbligherebbe la sua professione, Crespi si limita a coltivare una ristretta cerchia di amici. 
Tra questi c'è un artigiano, un argentiere, più giovane di lui di una ventina d'anni, con cui sembra condividere lo stesso modo ironico di guardare il mondo: è Zanobi Troni, un livornese, che si è trasferito a Bologna giovanissimo e con cui Crespi ha subito legato. 
Nel suo lavoro Troni è molto bravo e si è saputo creare una buona reputazione: grazie alla sua abilità è entrato in contatto con ricchi aristocratici e grandi cardinali e le commissioni, di certo, non gli mancano.
Guadagna molto denaro ma altrettanto è capace di sprecarne, tanto che le fonti del tempo raccontano che "alle volte si è trovato in angustie tali che lo avrebbero avvilito, se non fosse sollevato dal suo spirito allegro e vivace".
Ed è, forse, per quello stesso spirito che Crespi gli si è affezionato e che ha deciso di offrirgli in omaggio un ritratto di famiglia.

Nella tela, a presentare i suoi familiari è lo stesso Zanobi Troni, raffigurato, un po' defilato, sulla sinistra, col suo inconfondibile profilo dal naso aquilino che compare anche in altri dipinti di Crespi.
Con un gesto eloquente del braccio, che sembra preso in prestito dalla ritrattistica ufficiale, ci mostra i quattro figli, tre ragazze adolescenti e l'ultimo nato di un anno o due, e, soprattutto, indica la moglie, Valeria Crapoli, che ha sposato nel 1718. 
Al centro della composizione, messa in rilievo dal blu luminoso della veste, la donna domina la scena. 
Tutta la famiglia si dispone intorno a lei: con un atteggiamento tra pudico e orgoglioso, Valeria non si sottrae, anzi si lascia circondare e quasi avvolgere dai suoi, mentre tiene in mano delle ciliegie.
Le figlie sono tutte rivolte verso di lei; una di loro trattiene con la mano quella della mamma che si è appena posata sul suo volto per una carezza. Ogni gesto, ogni sguardo sottolinea il loro attaccamento reciproco. 
Tutti si sorridono con tenerezza, in un'intimità che sembra escludere ogni spettatore: tra di loro passa una corrente di dolcezza e di complicità. 
Quei sorrisi veri, senza nessun obbligo di posa, ci fanno sentire partecipi del loro calore e del loro affetto. 

Sembra che ognuno di loro (marito compreso) riconosca il ruolo della donna, come il centro, come il vero sostegno della famiglia, in una maniera talmente evidente da giustificare la definizione settecentesca di Marcello Oretti che descrive il quadro come come il "ritratto della signora moglie".
Il fatto, poi, che il dipinto, rimasto a lungo in casa Troni, non sia finito, che ci siano dei pentimenti e che la materia pittorica sia stesa con tanta immediatezza da lasciare intravedere la preparazione rosso scuro del fondo, conferma la destinazione privata e rende ancora più spontanea questa "potente e commovente visione d'amore", come l'ha definita il grande storico dell'arte Francis Haskell.
Un encomio senza retorica, un omaggio sincero e sentito che Crespi- rimasto vedovo qualche anno prima, raffigura con grande emozione e con un po' di rimpianto.

Nessun racconto, dunque, nessun enigma dietro questo dipinto.
Solo una famiglia come tante altre, una famiglia di gente comune, di cui non sarebbe rimasta memoria, salvo qualche rara citazione in polverosi documenti d'archivio, se l'arte di Giuseppe Maria Crespi, non fosse riuscita a trasmettere il ricordo di quel legame d'amore fino a noi.





Il calendario di pietra: novembre

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Dixe novembre: io non me so lodare/coglio le ghiande e le castagne/ per porci ingrassare/ e manzo de bona carne/ e bevo de vin dolce perché non me fassa male” (Ballata dei mesi del XIV secolo)


Novembre, il nono mese dell’anno secondo il calendario romano da cui ha preso il nome. 
Il mese, in cui le giornate diventano sempre più corte e le foglie degli alberi si rivestono dei colori sontuosi dell'autunno.
Per Ognissanti manicotti e guanti”: dice il proverbio e, in effetti, nell'aria, si cominciano ad avvertire le prime sferzate del freddo.
Nei calendari di pietra della prima metà del Duecento che, quest’anno, sto "sfogliando" a ogni inizio del mese, novembre non è il tempo della caduta delle foglie, né quello delle castagne e del vino dolce, di cui parla la "Ballata dei mesi".
Come sempre, la raffigurazione del mese è dedicata alla principale attività agricola del periodo. 
Nell'avvicendarsi delle stagioni, dopo la mietitura del frumento, la vendemmia e la semina, prima che il gelo renda troppo duro il terreno, è arrivato il momento della raccolta delle rape.


Il Novembre del Ciclo della Pieve di santa Maria ad Arezzo è un biondo e barbuto contadino, vestito con una tunica pesante stretta in vita da una cintura, che si difende dal freddo, calzando robusti stivaletti e indossando, sopra la cuffia chiusa dal sottogola, un caldo berretto di pelo. 
Con un gesto sicuro e preciso, estrae le rape dal terreno, afferrando il fogliame alla base del colletto.

All'epoca, la raccolta delle rape è una scadenza fondamentale del calendario agricolo. 
Coltivarle non è difficile: possono crescere ovunque, negli ampi campi aperti come nei piccoli orti recintati vicino alle case, hanno poche esigenze di clima o di terreno, si conservano a lungo e si possono cucinare in molti modi. 
Già nell'antichità, stando a quanto racconta Plinio il Vecchio, le rape rappresentano il terzo principale prodotto agricolo dopo il vino e il frumento, mentre i cronisti medioevali le considerano, insieme al cavolo, il cibo più diffuso nelle tavole dei poveri come in quelle dei ricchi. 
Conservate come scorte, servono a superare  i periodi più duri, quando i campi non danno più raccolti, e rendono meno temibile l'approssimarsi della brutta stagione.

In una società, dove ci si accontenta di poco e dove il pensiero della carestia e della fame è un assillo quotidiano, anche un modesto raccolto nell'orto di casa può rappresentare un sostegno: vestiti pesanti, un posto dove ripararsi e la sicurezza di un po' di cibo bastano per guardare al futuro con un po' di tranquillità. 
Anche se Novembre avanza e preannuncia  i rigori dell'inverno ormai non fa più paura. 






Petrus Christus: "Sant'Eligio nella bottega di un orefice"

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Un viaggio nel tempo? Perché no! 
Tanto più che non c’è nemmeno bisogno di astrusi macchinari da fantascienza. Basta guardare un dipinto come "Sant'Eligio nella bottega dell’orefice” di Petrus Christus (1410 ca-1476), ora al Metropolitan Museum di New York (qui), per essere catapultati d'improvviso nel 1449.


Siamo a Bruges. 
La città è allora la capitale commerciale del Ducato di Borgogna: dal suo porto salpano le navi dirette sia verso il Mediterraneo che verso l'Inghilterra e i paesi anseatici. Dal nord arrivano legname, cereali o pellicce; dal sud, vino tappeti, sete e spezie. 
Grandi banche, come quella dei Medici, vi hanno aperto le loro filiali, mentre nel palazzo dei Van der Bourse si tiene la prima borsa valori del modo. 
Nelle strade strette e lungo i canali si incontrano uomini provenienti da paesi lontani e si sentono parlare tutte le lingue conosciute. 
Si vive di scambi e di commerci: le botteghe espongono, nei banchi aperti sulla strada, le merci più rare e pregiate. 

Una coppia di ricchi fidanzati è appena entrata da un orefice per comprare gli anelli nuziali. 
Seguiamoli pure! La porta è aperta ed è lo stesso pittore che ci invita a entrare, mettendoci sotto gli occhi una miriade di particolari.
Dalla firma che, insieme alla data, ha apposto in primo piano, sappiamo che si tratta di Petrus Christus (ne ho parlato anche qui). 
Allievo e continuatore di Jan Van Eyck, vive a Bruges come un artigiano benestante in contatto con gli esponenti più importanti della borghesia e dell'aristocrazia cittadina. 
Di certo, conosce bene i capi della Gilda degli orefici che gli hanno commissionato il quadro dedicato al loro patrono, Sant’Eligio, per esporlo nella sede della Corporazione. 
Gli orefici di Bruges, all'epoca, sono una vera potenza. 
Alla corte di Borgogna l’oro rappresenta il simbolo stesso del potere: i fortunati visitatori raccontano non solo che i nobili cortigiani sfoggiano gioielli di ogni tipo, ma anche che i soprammobili e, perfino, i servizi da tavola sono d'oro massiccio. 
I borghesi, se pure agiati, non possono di sicuro rivaleggiare con una tale magnificenza, ma hanno imparato dall'esempio dei Duchi che la ricchezza non è una vergogna (anzi!) e che deve essere esibita. Per questo non c'è nulla di meglio dei gioielli: gli orefici lavorano senza sosta e fanno fatica a soddisfare tutte le richieste. 
Nessuna meraviglia che, per il loro dipinto, non abbiano badato a spese e che si siano rivolti all'artista più caro della città. 
E Petrus Christus li ha saputi accontentare da par suo.
La scena sacra, che non tutti avrebbero compreso, è diventata, sotto il suo pennello, uno spaccato di vita quotidiana.
Intanto, ha trasformato la bottega di Sant'Eligio, che la storia ricorda come un orafo diventato vescovo e consigliere dei re merovingi, in una di quelle che si possono vedere comunemente in città e, poi, ha dato al volto del Santo i tratti dell'orefice più famoso di Bruges, Willem van Vuelten, noto per aver creato il preziosissimo anello di nozze della nipote del Duca di Borgogna. 

Niente di più adatto della sua bottega per due fidanzati un po'snob. 
Lei, tutta compresa nel suo ruolo, indossa per l'occasione un prezioso abito di broccato d'oro con un motivo di melograno e uno di quei copricapi a corna con un velo di seta che, al tempo, fanno furore. Con la mano destra indica l'anello che le interessa. 
Lui sfoggia, con una certa altezzosità, una veste di velluto blu foderata di pelliccia con un collo di seta rossa e un berretto decorato da una spilla. 
Sulla camicia di un bianco immacolato, spicca un pesante collare, forse quello del Toson d'oro, la decorazione più ambita dai membri della corte. 
Con un gesto di protezione tiene la mano destra sulla spalla di lei, ma, allo stesso tempo- come ogni gentiluomo che si rispetti- appoggia la sinistra sull'elsa della spada. 

Sulla parete di fondo, proprio dietro le spalle dell’orefice, è appesa, in bell'ordine,  tutta una serie di oggetti, un vero e proprio campionario di quello che la  sua bottega può offrire. 
E ce n'è per tutti i gusti: orecchini, anelli, pietre preziose, ma anche brocche d’argento, pezzi di oreficeria liturgica e perfino un ramo di corallo, indispensabile, all'epoca, per cacciare il malocchio. 

Sul banco di legno, accanto alla bilancia per pesare gli anelli, le monete straniere alludono alla sua attività di cambiavalute, mentre la cintura, posta in bella evidenza, è quella che, secondo la tradizione, deve essere indossata per la cerimonia delle nozze. 
Sulla destra, spicca uno specchio convesso, il cosiddetto "occhio della strega", che, piazzato davanti alla finestra, serve non solo a catturare tutta la luce dei brumosi inverni del Nord, ma anche a sorvegliare discretamente il viavai dei clienti.

Insieme alla strada e agli edifici con gli alti tetti caratteristici di Bruges, lo specchio riflette anche due passanti che si danno una certa aria di raffinatezza portando con loro un rapace addestrato per la caccia.
Un quadro nel quadro, una sorta di scatola cinese, con cui Petrus Christus, citando lo specchio inserito dal suo maestro Jan Van Eyck nel "Ritratto degli Arnolfini", intende dar prova di tutta la sua abilità, ma che gli serve anche a costruire il suo gioco di prestigiatore 
In effetti, l’illusione è tale che abbiamo l'impressione che quello specchio potrebbe riflettere anche noi, se non ci sbrigassimo a spostarci. 
Insomma, siamo caduti nella trappola!
Petrus Christus, lontano le mille miglia dalla sintesi e dalla definizione matematicamente rigorosa dello spazio della pittura italiana, è riuscito ad abbattere ogni confine tra realtà e finzione e a ricreare il mondo reale, grazie alla minuziosità dei suoi dettagli, resi ancor più nitidi dalla lucentezza della pittura a olio.
Restituendo a pieno l'apparenza- o, per così dire, la pelle- delle cose, costruisce la sua illusione e cancella ogni limite di tempo e di spazio, fino a trasportarci, in un'uggiosa giornata di novembre, dalla nostra sedia di fronte allo schermo di un computer alla Bruges di sei secoli fa. 

Che vi dicevo? E' bastato solo lasciarsi andare al suo gioco di specchi, di dettagli e di colori perché la pittura compisse, ancora una volta, la sua magia.










Il marinaio e l'infermiera: "Il bacio di Times Square"

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Dalle foto di baci nascono sempre delle storie. 
Anche se spesso non sono- come si potrebbe immaginare- storie d'amore. 
Dopo il famosissimo bacio, fotografato da Roberto Doisneau a Parigi all'Hotel de Ville e contestato da due "falsi" innamorati (qui), eccone un altro, altrettanto famoso e altrettanto discusso:


Siamo a New York, in Times Square, il 14 agosto del 1945, in quello che sarà ricordato come il V-J Day: il presidente Truman ha appena annunciato alla radio la resa del Giappone che segna, di fatto, la fine della seconda guerra mondiale. 
Dopo quasi cinque anni di un conflitto durissimo l'entusiasmo è alle stelle e, nell'euforia generale, molti scendono in strada. 
C'è chi applaude, chi canta, chi urla: un giovane marinaio dell'US Navy festeggia a modo suo, baciando con foga un'infermiera in uniforme, in un gesto tipico di due innamorati. 

La foto sarà pubblicata nella rivista "Life" il 27 agosto del 1945 e, con il titolo di "V-J Day in Times Square", farà il giro del mondo. 
Sarà riprodotta migliaia di volte fino a diventare un'icona, un'immagine di culto. 
Tanto che, nell'agosto del 2010, sempre in Times Square, centinaia di zelanti volontari si presteranno a ripetere quel bacio leggendario. 
Una foto straordinaria: il simbolo dell'uscita da un incubo e della ripresa della vita. 
O, almeno, così parrebbe, perché, in realtà, intorno a quel bacio, definito dai più sentimentali come "uno dei più romantici di tutti i tempi", si intrecciano storie e verità diverse.

La prima è quella del fotografo, Alfred Eisenstaedt (qui) che chiarisce che i due della foto non erano affatto innamorati: 
"Stavo camminando in mezzo alla folla- racconta- alla ricerca di foto da scattare. Ho visto un marinaio che veniva nella mia direzione, abbracciando e baciando tutte le donne- giovani o vecchie- che incrociava. Ho notato anche che in mezzo alla folla c'era un'infermiera. Mi sono concentrato su di lei e, come speravo, il marinaio si è avvicinato, l'ha rovesciata  all'indietro e l'ha baciata. Se non fosse stata un'infermiera, se avesse portato degli abiti scuri, non avrei scattato la foto. Il contrasto tra la veste bianca e quella nera del marinaio, ha dato alla foto tutta la sua intensità”. 
Insomma, per scattare quell'immagine  è bastato avere occhio e capacità di cogliere il momento. 
Nessun teatrino come quello che Robert Doisneau aveva dovuto organizzare per il suo “Bacio". Ma nemmeno un gesto d'amore.
A Eisenstaedt è stato sufficiente fissare col suo obbiettivo l'incontro casuale tra due sconosciuti, per trovare già tutto: l'ambientazione, l'espressività, il contrasto dei colori e, soprattutto,  un bacio così travolgente da aver l'aria di un passo di tango.  

Ma, allora, chi sono i due protagonisti? Se lo chiedono in così tanti che "Life, a distanza di anni, quando la foto è diventata ormai mitica, pubblica un appello per ritrovarli. 
Il successo va al di là delle aspettative: di presunti marinai "baciatori" e infermiere baciate se ne presentano non due, ma quindici (tre donne e dodici uomini) e ognuno narra la sua storia. 
La donna viene, da subito, identificata con Edith Shain, un’infermiera di un vicino ospedale che si era già fatta viva, scrivendo al fotografo, in tempi non sospetti. 
E l’uomo? Come fare a riconoscerlo tra tanti candidati? 
Il tempo passa e l'impresa sembra impossibile, almeno finché non si pensa di far ricorso a  prove scientifiche. 
In effetti, è proprio un medico legale, che, nel 2007, in base  a tutta una serie di analisi e misurazioni da far impallidire i poliziotti di "CSI", individua il protagonista della foto in Glenn Mc Duffie, un arzillo ex marinaio in pensione (qui). 
L'uomo, che aveva rivendicato il suo ruolo in tribunale, sottoponendosi perfino alla macchina della verità, può finalmente godersi il suo quarto d'ora di celebrità, rilasciando interviste, apparendo in televisione e ripetendo il bacio, nella stessa posizione della foto, ogni volta che glielo chiedono. 
"Per un po'- grazie  a quell'immagine, ha avuto la vita più glamour di qualsiasi altro ottuagenario":- ha ammesso la figlia.

Tutti contenti dunque? Nemmeno per idea! 
Perché a confondere le carte arrivano, nel 2012, due scrittori che hanno passato addirittura vent'anni, a confrontare foto, interviste  e i ricordi sempre più appannati dei testimoni, e che pubblicano un libro, in cui ricostruiscono, punto per punto, l'accaduto. 
Alla fine emerge un’altra verità. E stavolta sembra quella definitiva (qui)
Intanto, l’uomo non è affatto quello proposto dal medico legale, ma un altro marinaio, George Mendosa, riconosciuto con sicurezza dai suoi vecchi  commilitoni. 
La donna della foto, invece, all'epoca non  era nemmeno un’infermiera, ma un'assistente odontoiatrica, Greta Zimmer, che aveva indossato l'uniforme per il suo primo giorno di lavoro. 

Tutto sistemato! L’uomo e la donna sono stati identificati e, finalmente, si può stare tranquilli. 
E, invece, no!  Perché in questa ingarbugliata vicenda, nemmeno il bacio è quello che sembra. 
Dalle dichiarazioni della donna riportate nel libro risulterebbe- almeno stando a quanto sostiene il blog femminista "Crates and Ribbons" (qui)- una verità, non proprio "politicamente corretta". 
"Non l'ho nemmeno visto arrivare- racconta Greta Zimmer- e ancora prima di rendermene conto mi sono trovata afferrata come in una morsa. Ed è così che mi ha baciato"
Basta questo per far ipotizzare che quel bacio tanto celebrato nasconda, addirittura, un'aggressione sessuale: il marinaio, in preda all'entusiasmo e, forse, anche ai fumi dell'alcol- si sarebbe  imposto con la forza a una donna riluttante. 
Insomma, su quel gesto, diventato simbolo di gioia e di libertà, ci sarebbe molto da ridire. 

Peccato! 
Forse su certe immagini, che  sono entrate così profondamente nei sentimenti e nell’immaginazione sarebbe meglio non investigare troppo. 
E  lasciare che i più romantici, o i più ingenui, continuino a commuoversi e, magari, a pensare che, in fondo, anche quel bacio non sia che  "l'apostrofo rosa tra le parole t'amo".







TwittArte: parlare d’arte su Twitter con Art-B Tweets

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C'è qualcosa di nuovo tra i blogger d'arte:#artbtweets!

Lunedì 17 novembre, dalle 21,30 alle 22,30, su Twitter prenderà il via una chat d’arte:  Art-B Tweets (#artbtweets è l’hashtag ufficiale), nata da un'idea condivisa da diversi blogger d’arte.
L’intento  è quello di creare su Twitter un luogo di discussione e di scambio sull'arte e sulla maniera di comunicarla. 
Quelli che frequentano Twitter sanno bene che in altri settori, dai viaggi, alla cucina, alla politica, le chat sono molto diffuse e coinvolgono una marea di utenti. 
Finalmente, da lunedì 17 novembre, ci sarà anche una chat specifica sull'arte.



Ogni lunedì, i blogger, che hanno deciso di dare vita al progetto, proporranno un tema, attraverso sei domande, poste ogni dieci minuti (la prima alle 21,30, la  seconda alle 21,40… e così via). 
Ogni domanda sarà preceduta dalla sigla D1, D2, D3 e chiusa dall’hashtag  #artbtweets. 
Gli utenti di Twitter  che vorranno rispondere o commentare lo potranno fare  con  la formula R1, R2, R3...+ riposta+ hashtag, oppure scrivendo liberamente la propria opinione, ma senza mai dimenticare l’hashtag.
La prima chat sarà moderata da Finestre sull’arte, poi, nelle settimane seguenti, si alterneranno tutti i blog che partecipano all'iniziativa che, in ordine alfabetico, sono per ora: Arte a modino, Finestre sull'arte, Kunst, Mostre-rò, Mo(n)stre, The Art post Blog. Ovviamente ci sarò anch'io di Senza dedica. 

Lo so: sembra complicato. Ma, credetemi, è più difficile scriverlo che farlo! 
E lo dice una che ha  cominciato a usare Twitter  da poco e che ignorava, fino a qualche giorno fa, perfino l’esistenza dell’hashtag.
Partecipare a questo progetto mi è sembrata, da subito, una bella sfida: la difficoltà sarà quella di usare un mezzo del tutto nuovo e di ridurre ai 140 caratteri di un tweet argomenti trattati, in genere, con maggiore spazio. 
Ma l’idea che mi è piaciuta è quella di  "fare rete" con blog che apprezzo e che leggo con grande interesse e, soprattutto, di coinvolgere- tutti insieme- in una discussione sull'arte, un pubblico più vasto possibile. 

Dunque: lunedì 17 novembre alle 21,30 comincia l’avventura. 
Il primo tema sarà proprio quello dell’arte sui blog e sui siti web.
Partecipare è facile: basterà scrivere #artbtwets nel motore di ricerca di Twitter per trovare la discussione e cominciare a parlare, anzi, a chattare.

E, allora, a lunedì. Su Twitter, naturalmente!





L'Annunciazione nelle Fiandre: il trittico Merode

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Ancora un viaggio nella pittura fiamminga?  
Prima di partire, però, sarà meglio armarsi di una buona lente di ingrandimento e, soprattutto, di pazienza perché stavolta entriamo addirittura all'interno del trittico Merode (il nome deriva dagli antichi proprietari), attribuito alla bottega di Robert Campin (ne ho parlato qui) e ora al Metropolitan Museum di New York (qui).

Nei tre pannelli, un giardino, un salotto e la bottega di un artigiano con una finestra aperta su una tipica città delle Fiandre, con le sue case, le sue piazze e i suoi abitanti affaccendati.


Siamo tra il 1422 e il 1430, gli stessi anni in cui, nel cielo della pittura italiana, trascorre la folgorante meteora di Masaccio. 
Qui, però, sembra di essere in un altro mondo, simile, ma non uguale, a quello a cui siamo abituati. 
Nessuna sintesi, nessuna definizione prospettica dello spazio, ma un pullulare di dettagli che la pittura a olio rende vivi e reali.

Nel pannello centrale, è rappresentato l'interno di una casa, e, proprio lì, in un lindo salotto borghese, tra un tavolo e una panca, si svolge niente di meno che la scena dell'Annunciazione. 
Nella stanza, è appena entrato un angelo dalle ali multicolori e dalla veste bianca, con una tale discrezione che la Madonna non se n'è nemmeno accorta. 

Si è inginocchiato con riverenza, e ora, con la mano alzata, cerca timidamente di richiamare l'attenzione. 
Quasi avesse paura di disturbare la Vergine che, seduta per terra in segno di umiltà, è assorta nella lettura di un libro di devozione, avvolto, rispettosamente, in un candido lino. 
Qui a illustrare il momento solenne dell'Annunciazione, non ci sono apparizioni di Dio Padre o della colomba dello Spirito Santo tra nuvole splendenti. 
Però, se guardiamo bene, vediamo che è comparso dalla finestra un minuscolo Gesù Bambino che porta una croce: è il cosiddetto Verbo incarnato, il simbolo per eccellenza dell'Incarnazione. 

I raggi dorati, da cui scaturisce e che passano attraverso il vetro, senza scalfirlo, alludono alla gravidanza verginale di Maria. 
Eccola, dunque, l’apparizione divina che mancava, simbolica, ma allo stesso tempo, talmente concreta da spegnere, muovendo l'aria, la candela ancora fumante sul tavolo.  
E ora, come nella pittura di Jan van Eyck (ne ho parlato qui), sembra che ogni particolare di quella stanza tranquilla nasconda un significato più profondo.
Il bacile di rame pieno d’acqua, l'asciugamano immacolato alla parete o il fiore di giglio nel vaso posato sul tavolo, che ha la dignità di un altare, evocano la purezza di Maria. Le finestre semichiuse la sua vita appartata, la candela spenta sopra il camino la superiorità della luce divina su quella naturale. Perfino i leoni, scolpiti sui braccioli della panca, rimandano al trono del  saggio re Salomone dell'Antico Testamento. 


Nel pannello di destra, è raffigurato San Giuseppe, che, normalmente, non compare mai nella scena dell’Annunciazione.
È vero che i due ambienti non comunicano e che il Santo sembra completamente ignaro dell’evento sacro, tanto che, senza distrarsi, continua il suo lavoro, forando, con una trivella a mano, una tavola di legno, per farne un parafuoco simile a quello che protegge il camino del salotto.
I suoi utensili sono sparsi sul tavolo e per terra, mentre, dalla finestra aperta, si intravede una strada della città. 

Una bottega da falegname come tante, se non fosse per due oggetti, uno sul davanzale e l’altro sul tavolo, collocati in una posizione così evidente da catturare immediatamente l'attenzione. 
Capire cosa siano è facile: sono due banali trappole per topi. 
Capire, invece, cosa ci stiano a fare vicino all'Annunciazione è tutt'altra faccenda!
Per scoprirlo bisogna addirittura scomodare Sant'Agostino e il brano in cui spiega come l’Annunciazione, l’Incarnazione di Cristo e la Passione, non rappresentino nient'altro che una "muscipula diaboli", vale a dire la trappola che, nel disegno divino, si è resa necessaria  per catturare e sconfiggere il demonio.
Ecco, dunque, ancora una volta, un simbolo che assume la concretezza di un oggetto quotidiano. 

Fin qui tutto è chiaro (o, almeno, spero), ma  resta ancora il pannello di sinistra.


In un giardino chiuso da mura, l"hortus conclusus" che allude alla verginità di Maria, sono inginocchiati i due committenti, identificati, grazie agli stemmi nella parte superiore della finestra, come membri di una ricca famiglia di mercanti residente a Malines: un gentiluomo elegantissimo e la moglie con il tipico copricapo delle donne maritate e un rosario di corallo in mano. 
C'è da dire, subito, che la figura della donna è un’aggiunta posteriore. 

Così come successiva è quella dell’uomo col cappello di paglia, che si è fermato rispettosamente sulla porta del giardino che è vestito con l'abbigliamento tipico dei messi municipali di Malines. 
Un messo comunale...questa, poi! 
Certo che in questo dipinto, apparentemente così facile, tutto deve essere interpretato. 
Niente paura: anche qui c'è una spiegazione. 

Il trittico sarebbe stato richiesto alla bottega di Campin prima del matrimonio del committente. 
Solo dopo le nozze, a qualche anno di distanza, Rogier van der Weyden, allievo di Campin, sarebbe stato incaricato di aggiungere le due figure.  
La donna, evidentemente, è la nuova sposa, mentre il timido messo che evoca l'angelo della scena principale, potrebbe annunciare- con la sua sola presenza- una gravidanza, non certo soprannaturale ma, quanto meno, insperata. 

In tal caso, il dipinto non sarebbe che un ex voto di ringraziamento per affidare alla protezione della Vergine Annunciata la nuova famiglia. Probabilmente- viste le dimensioni ridotte (64 cm di altezza per una larghezza totale di 120 cm)-  non era destinato ad essere appeso sull'altare di una chiesa, ma  in un salotto di casa non tanto dissimile da quello raffigurato.
Visto? Con un po' di pazienza, il viaggio è terminato e, come nelle ordinatissime abitazioni fiamminghe, ogni cosa ha trovato il suo  suo posto. 
In questa nitida dimensione casalinga, il mistero dell'Annunciazione non sgomenta più: soprannaturale e vita quotidiana si  mescolano, complessi riferimenti teologici sono nascosti negli oggetti più comuni  e, per rappresentare la sconfitta del demonio, basta  soltanto una trappola per topi.








Per chi voglia approfondire l'interpretazione del Trittico Merode (e la pittura fiamminga in generale), i testi di Erwin Panofsky (qui) e di Meyer Schapiro (che in un saggio straordinario ha chiarito il simbolo della trappola per topi: qui ) rimangono una lettura indispensabile.


Il mondo sottosopra: le fotografie di Philippe Ramette

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Un uomo, in un elegante abito scuro, cammina sul tronco di un albero in una bella giornata d'autunno:


Lo stesso distinto personaggio, con la sua impeccabile giacca doppiopetto, solca il mare nei pressi della riva, mentre tutto intorno è sottosopra:


Poi, con un'invidiabile compostezza, levita a mezz'aria nel parco di una villa:


Oppure, senza mostrare il minimo timore, cammina sulla parete di un salotto:


Impassibile e ben vestito, sfida non solo ogni legge di natura, ma anche il più comune buon senso.
Gli manca solo la bombetta per apparire come uno di quei surreali ometti che popolano i quadri di René Magritte.
Ma qui non siamo nell'universo fittizio della pittura: qui è tutto vero e quell'uomo che, nelle situazioni più improbabili, conserva la stessa flemma di un attore del cinema muto come Buster Keaton, è l'artista francese Philippe Ramette (qui).
Nato nel 1961, disegnatore, scultore e fotografo, vive e lavora a Parigi. È lui che, qualche anno fa, ha avuto l'idea di giocare con se stesso e con la realtà, abolendo- per il tempo breve di uno scatto fotografico- le leggi fisica e della gravità.

Perché le sue foto non sono affatto- come si potrebbe pensare- frutto di un fotomontaggio o create con un raffinato programma al computer.
Qui, come direbbe un prestigiatore: "non c'è trucco e non c'è inganno" (almeno digitale).
"Sicuramente si potrebbe fare una manipolazione a computer- afferma Ramette- ma quello che mi interessa, invece, è il paradosso, è cercare di razionalizzare l'irrazionale".

Dietro le sue foto, infatti, c'è un lavoro da certosino che inizia con un album di disegni di vere e proprie sceneggiature. 
Poi un gruppo di fedeli collaboratori si incarica di realizzarle, a partire dal suo complice di sempre, il fotografo Marc Domage, capace di sfruttare ogni angolazione per rendere la foto più verosimile e, allo stesso tempo, più assurda possibile. 
Insomma, è come la produzione di un un film, di cui Ramette è il regista.

Qui, ad esempio, come in un fotogramma bloccato, il nostro uomo in nero, sembra contemplare una città in bilico su un cornicione, in un  atteggiamento che ricorda sia il protagonista di un film d'azione che l'eroe romantico di un quadro di Friederich.


Senza mai un capello fuori posto, Ramette si sottopone a pose faticose e non esenti da rischi: in piedi o seduto, sospeso nel vuoto o nelle posizioni più strane.
Niente paura! Anche se non si vede, è sostenuto da piattaforme, da anelli alle caviglie o da supporti rigidi inseriti nei vestiti e da tutta una serie di strutture o- come li definisce lui stesso- di "oggetti" che costruisce, per lo più, da solo e "che servono da punto di partenza per delle micro-finzioni".
E poi, ovviamente, non gli manca un'innegabile dose di sangue freddo.

Come qui, dove, parallelamente all'acqua dell'oceano, attraversa, con la consueta impassibilità, la baia di Hong Kong, quasi fosse appoggiato alla balaustra del balcone di casa:


Nessuno sforzo è troppo per lui, anzi è sempre pronto ad affrontare situazioni quanto meno poco confortevoli.
Come nella serie intitolata "Esplorazione razionale dei fondi marini", dove Ramette si cimenta addirittura con delle foto realizzate in apnea, per cui ha dovuto preparare minuziosamente le sue immersioni al largo della Corsica e ha chiesto la collaborazione di un'intera squadra di sommozzatori.
Ed eccolo, mentre con l'immancabile giacca e cravatta, si orienta sott'acqua, leggendo una carta:


Oppure mentre, tranquillamente seduto, osserva il paesaggio sottomarino:


In un video (qui) Philippe Ramette spiega gli avventurosi processi tecnici che precedono gli scatti delle sue fotografie. 
Ma, forse è meglio non indagare troppo per lasciarsi conquistare dalla magia (e dalle sensazioni vertiginose) delle sue immagini.
Come questa, dove, seduto sul bordo di un precipizio nel Sud della Francia, nella posa del "Pensatore" di Rodin, contempla, con tutta calma, la strada stretta e piena di curve che sembra correre sotto di lui:


"La mia idea- spiega-è quella di rappresentare un personaggio che abbia uno sguardo diverso sul mondo e sulla vita quotidiana. Nelle mie foto non c'è alcuna attrazione per il vuoto, ma la possibilità di acquisire un altro punto di vista".
Con leggerezza, apparente disinvoltura e -perché no?- un pizzico di follia, Ramette  restituisce, nelle sue foto, l'idea di una società che ha perso ogni punto di riferimento.
Con umorismo, ironia e il suo immutabile completo da funzionario modello, cerca di scardinare la nostra razionalità e modificare la nostra maniera di vedere le cose, costruendo un suo universo, insieme bizzarro e familiare, dove si può camminare sotto il mare e la gravità non esiste.
Come solo un grande illusionista o un vero artista sa fare.




I fiori del paradiso di Séraphine de Senlis

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Un albero fantastico, dove i colori sono accesi, le foglie splendenti come fiamme e dove- nella chioma lussureggiante- sembrano aprirsi occhi misteriosi.
È l’”Albero del Paradiso”, una tela di quasi due metri per uno, conservata in Francia al Museo di Senlis: 


Siamo intorno al 1930 e, quando dipinge questa  natura rigogliosa, Séraphine Louis, nota come Séraphine de Senlis (1884-1942), ha passato da un po' la quarantina e ha dietro di sé una vita che sembra un romanzo. 
Orfana, è entrata a servizio fin da bambina, passando da una famiglia all'altra e poi, per vent'anni, ha fatto la domestica in un convento. 
Da poco, si è trasferita a Senlis, una cittadina non lontana da Parigi.
Massiccia, sgraziata, sempre silenziosa, non si trova  a suo agio con la gente e ha pochi contatti con gli altri. 
È lenta nel capire, parla poco e male: una povera mentecatta la definiscono i più crudeli. 
Nei suoi pochi momenti liberi, passeggia nei campi, con un cappello di feltro e uno scialle scuro: qualcuno dice di averla vista abbracciare gli alberi, accarezzare l’erba e parlare con i fiori. 
Porta sempre con sé un ombrello e un paniere in cui tiene nascosta una bottiglia di vino. 
Per il resto, conduce la  vita  degli "invisibili", lavorando per pochi centesimi all'ora non come una cameriera con tanto di grembiule e crestina, ma come una serva tuttofare, a cui si affidano i compiti più ingrati  e faticosi: pulire i pavimenti, incerare i mobili o lavare la biancheria. 
Lei li definisce i suoi "lavori neri”. 
I "lavori colorati", invece, sono quelli che fa di notte, nella sua stanzetta, al lume di una lampada a olio: lì, china per terra, dipinge fino allo sfinimento, con i pennelli e con le dita, su piccole tavolette recuperate qua e là e, intanto, canta le lodi della Madonna o mormora litanie sacre. 
Religiosissima, considera i suoi quadri come preghiere, in cui  rende omaggio a Dio, raffigurando quello che ama di più: gli  alberi, i cespugli, i fiori selvatici o la frutta che cresce nei campi. 
Nei suoi dipinti non ci sono mai edifici, né oggetti, né presenze umane o animali. 
Solo tripudi di fiori e di foglie che invadono tutto lo spazio con le loro tinte accese, come in queste "Foglie rosse", ora al Museo di Senlis: 


Entrando nella grande cattedrale di Senlis, è rimasta colpita dai colori smaglianti delle vetrate. 
Sono quelle le tinte che vorrebbe nei suoi dipinti, ma non ha soldi per comprarsele. Allora decide di fabbricarle da sola: con astrusi procedimenti estrae  succhi colorati dalle piante e dalle bacche e li mescola con il sangue che raccoglie nella macelleria, con le terre dei boschi, con l'argilla degli stagni o con l'olio che sottrae dai lumini della chiesa. 
E mantiene gelosamente il segreto su quelle strane misture che danno ai suoi dipinti un effetto lucido come di smalti. 

A Senlis, i più la guardano con un misto di pietà e di disprezzo e giudicano le sue pitture come stranezze di una squilibrata. 
Qualcosa cambia, quando, nel 1912, si stabilisce, in città un raffinato critico e collezionista tedesco, Wilhelm Uhde, amico ed estimatore di artisti come Picasso, Braque, Rousseau o Marie Laurencin.  
Séraphine  va  a casa sua tutte le mattine per fare i lavori pesanti. Per lui non è che una domestica qualsiasi, quando, per caso, scopre i suoi dipinti colorati e stravaganti. 
È una folgorazione: per lui quella donna silenziosa ha un vero talento e i suoi dipinti sono opere d'arte. Tanto che fa di Séraphine la protagonista del libro che sta scrivendo sui pittori autodidatti, o, come preferisce definirli, "primitivi moderni"
È un incontro, quello tra Uhde e Séraphine, che segna la loro vita. Apparentemente lontani, sono in realtà molto  simili. 
Tutt'e due sono soli: lei con le sue visioni religiose e la sua incapacità di comunicare con il mondo; lui, omosessuale, con la sua  vita appartata e il suo timore di affrontare il giudizio degli altri.
Con la prima guerra, Uhde, cittadino tedesco, è costretto a lasciare la Francia e Séraphine torna ai suoi "lavori neri". 
Solo qualche anno dopo, Uhde potrà rientrare a Senlis e riprendere i contatti.
Finalmente Séraphine, contenta di essere apprezzata come artista, inizia a dipingere a cavalletto tele sempre più grandi. 
Dipinti di due metri con  alberi che sembrano nascere dalle sue visioni mistiche, come questo "Albero della vita", ora al museo di Senlis: 


Oppure come questo "Mazzo di foglie che sembrano piume di bizzarri uccelli (ora in collezione Dina Viery): 


O queste straordinarie "Margherite bianche" del Museo di Senlis:  


Con i soldi che riceve, Séraphine affitta un piccolo appartamento e compra oggetti che a lei, poverissima, sembrano il simbolo stesso del lusso: qualche tappeto, tovaglie ricamate, un po' argenteria. Si direbbe che sia  finalmente serena. 
Ma nel 1929, la crisi economica colpisce anche Udhe che, sommerso di debiti, non è più in grado di darle altro denaro. Per lei è un colpo durissimo: comincia a dubitare di sé e della sua arte. 
Il suo fragile equilibrio si infrange. Sempre più ossessionata dalle sue voci interiori e dalle sue manie di persecuzione, non mangia più per timore di essere avvelenata, vaga per le strade annunciando la fine del mondo, canta salmi per notti intere. 
Alla fine, qualcuno, esasperato, chiama la polizia. 
A quel punto- siamo nel 1932- appare inevitabile internarla in un manicomio. 
Da allora in poi, non dipingerà più.  
"La pittura è scomparsa nella notte... non si fa arte in questi posti": scrive in una lettera.  

Dopo la seconda guerra, nel 1945, Udhe, che, finché ha potuto, si è tenuto in contatto con lei, organizza a Parigi quella  mostra personale che Séraphine aveva sempre desiderato. 
Ora non è più considerata una povera pazza: i suoi quadri piacciono ed emozionano. I visitatori ne sono entusiasti.
Ma ormai è troppo tardi. 
In una sera del durissimo inverno del 1942, nella Francia occupata, Séraphine è morta in manicomio di fame e di stenti ed è stata sepolta in una fossa comune. Proprio lei che aveva lasciato scritto di sognare "un funerale di prima classe con tutti i signori in lutto, la messa e la musica".
E che avrebbe voluto fosse inciso sulla sua lapide "Qui riposa Séraphine Louis, senza rivali, in attesa della sua felice resurrezione"







"Séraphine"', il bellissimo film di Martin Prevost del 2009 (qui), è il modo migliore di conoscerla e di amarla.




Il Calendario di pietra: dicembre

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"Dixe Dexembre: sono lo tale. Fazo ghiazare omne chanale. Uccido i porci e mettogli in sale, fazo sossicce d’ogni razone" (Ballata dei Mesi del XIV secolo)  


"Tempus fugit", il tempo fugge, dicevano i latini: il 2014 è passato come un soffio ed eccoci già arrivati a dicembre, il decimo mese secondo il calendario romano, da cui ha preso il nome, l'ultimo dell'anno secondo il nostro. 
Il mese delle feste natalizie, dei dolci, dei rubicondi Babbo Natale o delle neve.
Niente di tutto questo agli inizi del Duecento: nel Ciclo dei Mesi della Pieve di Santa Maria ad Arezzo dicembre è il mese in cui si ammazza il maiale. 
In un periodo in cui i porci vengono, per lo più, allevati nei boschi allo stato brado, la macellazione avviene al termine della stagione delle ghiande, quando il freddo dell'inverno assicura la migliore conservazione delle carni. 
"Uccido i porci e mettogli in sale, fazo sossicce d'ogni razone (faccio salsicce d'ogni tipo)": dice di sé il Dicembre della Ballata dei mesi.


Sullo sfondo di un porticato sorretto da tre esili colonnine, un giovane biondo sta uccidendo un maiale che tiene inchiodato al suolo, dopo averlo violentemente rovesciato. 
Il gesto è quello preciso di chi sa risparmiare inutili sofferenze, vibrando all'animale una stilettata dritta al cuore, dopo averne calcolato la posizione,  ripiegandogli sul petto una delle zampe anteriori. 
Si tratta, probabilmente, di uno di quei norcini, che all'epoca, soprattutto nella stagione invernale, girano nelle campagne e nelle città offrendo i loro servizi per la macellazione. 


I colori vivissimi che si sono conservati tuttora, accentuano il realismo della scena con particolari come la posa del giovane con il ginocchio piegato per darsi più forza, la sopraveste rialzata e le calzature pesanti, oppure la fascia bianca all'altezza dello costole del maiale, caratteristica della cosiddetta "cinta" senese, una razza diffusissima nella Toscana del tempo.
Una scena brutale, ma non di una violenza gratuita: l'uccisione del maiale rappresenta, allora, uno dei momenti essenziali dell'anno, una sorta di rito collettivo, quasi una festa, a cui partecipa, a volte, tutta una comunità. 
Il maiale è considerato un animale indispensabile per la sopravvivenza: la sua carne è di gran lunga la più consumata nelle case dei poveri come nei banchetti dei ricchi, tanto più che- come si usa dire ancora oggi- del porco non si butta via nulla. 
Tutto serve e tutti sono pronti a utilizzarlo, fino all'ultimo.


La scena di Dicembre può turbare gli spettatori di oggi, più delicati (o forse più ipocriti) o poco avvezzi alla rudezza della vita di campagna. 
Allora, chi la guardava non si scandalizzava, né si turbava, ma leggeva in quella uccisione solo la possibilità di sopravvivere fino ai raccolti della primavera. 
Magari, passando i giorni più freddi al calore del fuoco, mentre gli insaccati pendevano rassicuranti dal soffitto, come appare, nello stesso Ciclo, nella raffigurazione di Gennaio (qui).
Se tutto andrà come nel calendario di pietra- si poteva pensare- la brutta stagione potrà essere superata senza patire la fame. 
Poi, torneranno di nuovo i venti di marzo, i fiori di aprile, le feste e le cavalcate di maggio e arriveranno l'estate e l'autunno, la mietitura del grano e la vendemmia.

I secoli passano e di quei pensieri, quelle gioie, quelle paure e quelle speranze rimangono solo le immagini che ignoti scultori hanno consegnato all'eternità dell'arte.
Ancora una volta, un anno finisce e un altro sta per cominciare: il tempo e le stagioni continuano, ora come allora, il loro immutabile ciclo.






I sogni nel cassetto di Joseph Cornell

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Sono giornate grigie queste, di umore e di pioggia: mi prende, ogni tanto, la voglia di evadere da un'atmosfera natalizia che sembra fatta solo di luminarie, di canzoni che parlano di neve e di renne e di una miriade di panettoni che affollano gli scaffali dei supermercati. 
Tra tutte le immagini che avevo in mente, ne scelgo perciò, una che suggerisce, in maniera del tutto particolare, sogni di viaggi e di fughe immaginarie: è l'"Hotel Eden", ora a Ottawa, alla National Gallery of Canada, opera di un grande artista, uno dei miei preferiti, Joseph Cornell.




Su uno sfondo di un bianco luminoso, un pappagallo variopinto, appollaiato su un ramo, regge col becco un sottile laccio nero, con cui sembra azionare una sorta di ventilatore. 
Accanto, in un vecchio e sciupato manifesto pubblicitario, si legge, a mala pena, il nome dell'hotel Eden. 
Tutto qui.
Una serie di oggetti raccolti e sistemati, intorno al 1945, in una delle sue piccole "scatole"- appena 38x12 centimetri- da Joseph Cornell (1903-1972). 
Ho già parlato qui di questo straordinario artista, solitario ed eccentrico, che passa la maggior parte dell'esistenza, chiuso, con la madre e il fratello invalido, nella sua casa in un quartiere periferico di New York.
Malgrado la sua vita appartata, non è affatto un isolato, anzi è al corrente delle ultime tendenze dell'arte contemporanea e in corrispondenza con gli esponenti più illustri delle avanguardie americane ed europee. 
Ma è, da sempre, anche un uomo indipendente, un "battitore libero", che, pur aderendo al movimento surrealista, ha scelto, fin dall'inizio, una strada che è solo sua. 
Le sue giornate, a partire dagli anni Quaranta, sono scandite da uno stesso ritmo: la mattina presto parte da casa con la metropolitana e scende al centro di Manhattan.
Là passa il tempo, vagando per le strade, rovistando nelle botteghe dei rigattieri, perlustrando depositi, magazzini o librerie di seconda mano. 
Acquista di tutto: libri, foto di quelle dive del cinema che adora da lontano, mappe, stampe, e, soprattutto, oggetti, un tempo preziosi ma ormai privi  di valore.
Un guazzabuglio di elementi che gli piace conservare in cartelle di cartone, divise per tema e catalogate con titoli come "Ragni", "Lune", oppure "Uccelli".
Quei materiali disparati sono la base delle sue creazioni. 
La sera, quando torna a casa, si mette al lavoro e li dispone- accostandoli liberamente- in piccole scatole di legno con un coperchio di vetro. 
Né dipinti, né sculture, le sue sono opere complesse che devono essere osservate piano piano, con attenzione e con delicatezza. 
Se si guarda bene ci si accorge che Cornell in quelle scatoline ricrea interi universi in miniatura, in cui rivela i suoi ricordi e i suoi desideri più nascosti.
Gli basta, per esempio, qualche paillette e un pezzo di tulle per ricordare un balletto.
Oppure, qualche bussola spaiata e una mappa della barriera corallina gli è sufficiente per evocare paesi lontani (sulle opere di Cornell, compresi i suoi film fatti di spezzoni di pellicole di serie B, qui e qui sono link a siti che ne parlano approfonditamente).


Le sue sono opere aperte, suggestioni visive che lasciano spazio a ogni sensazione, in completa libertà.
Così, in questo "Hotel Eden", qualcuno ha visto addirittura allusioni al paradiso terrestre o il simbolo di una rinascita simboleggiata dall'uovo visibile in alto. 
Oppure i più sofisticati hanno riconosciuto citazioni precise da un artista come Marcel Duchamp.
Ma, in realtà, poco valgono le interpretazioni, quello che importa sono le emozioni che Cornell sa suscitare dentro di noi, fin nel profondo.
Per me, per esempio, chiuso dentro questa scatolina, c'è tutto il desiderio di essere altrove. 
C'è la voglia di un'evasione, l'idea di un viaggio sognato più che vissuto, magari in un indistinto paese tropicale di un esotismo da cartolina, fatto di pappagalli colorati e di hotel dai nomi evocatori, che mi ricordano l'improbabile Sud America di una canzone di Paolo Conte.
Ma, quel che più conta è che questa colorata scatolina, fatta di immagini ritagliate e di oggetti sciupati dall'uso, è capace di suscitare la stessa commozione impalpabile e misteriosa di una poesia.







Tra nebbia e sogno: la "Resurrezione" di Bastianino per la chiesa di san Paolo di Ferrara

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"Egli non sa vedere che la notte, i crepuscoli e le apparizioni”(Francesco Arcangeli)

La “Resurrezione di Cristo", una delle tre grandi pale d'altare eseguite da Sebastiano Filippi detto il Bastianino (1532 ca-1602) per la chiesa di San Paolo a Ferrara:


Il Cristo risorto, circondato da un alone di luce dorata e da una gloria di angeli, si leva dal sepolcro, mentre i soldati, impauriti e attoniti, giacciono a terra, nell'ombra fitta che si addensa in basso.
Tutto sembra opaco e avvolto da una nebbia sottile che rende indistinti i contorni delle figure. 
Un dipinto di fronte a cui- per citare le parole di uno scrittore come Giuseppe Raimondi- si rimane colpiti da "tutto lo sconquasso che si osserva nella scena, un poco teatrale, un poco medianica e spiritistica... come un sogno visto da sveglio".

Siamo nella Ferrara degli anni '80 del Cinquecento. 
Sotto il Duca Alfonso II d'Este, la vita di corte continua nella magnificenza di sempre, tra spossanti battute di caccia, feste, musica, danze e gli spettacoli stupefacenti delle "Cavallerie". 
In Castello, è stata appena rinnovata la decorazione dell'Appartamento detto dello specchio. 
Agli affreschi sfrenati e scherzosi, ha collaborato lo stesso Bastianino, con quei "belli ignudi e pargoletti amori”, celebrati nei versi del poeta di corte, Torquato Tasso.
Alfonso II sembra interessarsi solo a questioni di etichetta e di protocollo, impegnato com'è nella disputa sulle "precedenze", una stremante quanto inutile contesa sui titoli di nobiltà che lo oppone alla famiglia dei Medici
Ma, dietro questa apparenza brillante e un po' fatua, cova dappertutto l'inquietudine
Nel 1570 un gravissimo terremoto ha colpito la città, le casse del Duca sono vuote e la popolazione, già fiaccata da epidemie ricorrenti, è gravata da tasse sempre più esose. 
Ormai, nemmeno lo splendore della corte può nascondere la consapevolezza di essere alla fine di un'epoca. 
Il Duca, malgrado tre matrimoni, non riesce ad avere quel figlio maschio che salverebbe la signoria estense su Ferrara: come stabilito da un antico patto, in assenza di un erede legittimo, la città è destinata a ritornare sotto lo Stato della Chiesa.

È in quegli anni difficili che Bastianino, già maturo e affermato, lavora ai dipinti di san Paolo.  
Spettatori e committenti, abituati al pittore brioso degli affreschi, non capiscono fino in fondo lo stile nebbioso e appannato che adotta, ormai, in tutte le sue tele religiose e che, dopo la morte, lo condannerà a un lungo oblio. 
Ci vorrà un grande critico d'arte, Francesco Arcangeli, per riscoprirlo e per fornire, nella sua monografia del 1963, quell'interpretazione suggestiva e poetica che resterà fondamentale per tutti gli studi successivi. 
Per Arcangeli, la nebbia, il velo che copre e offusca i colori dei dipinti di Bastianino e che priva i corpi di ogni consistenza, non è affatto un espediente, o addirittura un difetto di esecuzione, frutto di quella "negligenza" che gli veniva spesso rimproverata. 
È, invece, l’espressione in pittura dell'incertezza e del disagio che suscita la sensazione della fine di un'epoca e della malinconia che accompagna il dorato tramonto della corte ferrarese.

Bastianino, con una sensibilità che lo avvicina alla poetica tormentata di Torquato Tasso non fa che rappresentare, nei suoi dipinti, la crisi della "Ferrara affascinante e triste ma dimentica di Alfonso II".
E il dissolversi delle sue immagini non è che il riflesso del dissolversi di quel mondo.

Nella "Resurrezione" non c'è alcun senso di trionfo, alcuna esaltazione. 
I colori fumosi e i contorni sfocati aboliscono ogni nitidezza di disegno.
Le influenze di artisti come Tiziano o come Michelangelo, conosciuto a Roma e considerato un modello di riferimento, sono rielaborate in uno stile, dove manca ogni drammatizzazione e dove ogni gesto è dilatato in un'atmosfera ovattata e pesante. 
Tanto che sembra che Cristo si liberi a fatica dai lacci della morte e "anziché balzare verso l’alto… si apra il passo fra gli inceppi molli dei dormienti come risucchiato da un lento maelstrom" (Arcangeli).
I corpi dei soldati caduti a terra, con i volti deformati o appena accennati, si smaterializzano e si confondono in una massa indistinta



Gli angeli che circondano Cristo, dipinti a piccoli veloci colpi di pennello sfumati con le dita, sono presenze evanescenti che si distinguono appena nel passaggio tra l'ombra e la luce


Tutto si trasforma in una visione. 
E le immagini svaniscono nell'indeterminatezza di un sogno.




Bastianino è il protagonista della mostra "Lampi sublimi a Ferrara. Tra Michelangelo e Tiziano. Bastianino e il cantiere di san Paolo", a cura di Anna Stanzani, che si terrà da oggi e fino al 15 marzo 2015 nella Pinacoteca Nazionale di Ferrara






L'"Adorazione del Bambino" di Paolo Uccello nella chiesa di san Martino a Bologna

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La scena notturna di un presepe, racchiusa da una cornice dipinta a punte di diamante, in un affresco staccato, di più di due metri per tre, attualmente collocato nella prima cappella a sinistra della chiesa di San Martino a Bologna:



Un dipinto, particolarmente adatto a questi giorni pre-natalizi non solo per il soggetto, ma anche perché la sua scoperta ha l'aria di un piccolo prodigio. 
Sì,perché questo affresco, di cui nessun testo riportava l'esistenza e che non figurava in nessun documento, è ricomparso all'improvviso, come un'apparizione. 
C'è da immaginarsi la sorpresa degli operai che lavorano nella sagrestia di san Martino, quando, nel 1977, una caduta dell’intonaco lasciaintravedere la figura di un Gesù Bambino. 
Si capisce subito che intorno a quella figura c'è dell'altro e si decide immediatamente di rimuovere l’intonaco che copre il resto dell'affresco: il lavoro di restauro è lungo, ma, alla fine, si riesce a riportare alla luce l'intero dipinto. 
Anche se i danni sono irreparabili e una parte dell'affresco è perduta, quello che rimane lascia tutti stupefatti e si rivela di una qualità talmente alta che un grande studioso come Carlo Volpe puòattribuirlo, con sicurezza, a uno dei protagonisti della pittura del Quattrocento, Paolo Uccello (1397-1475).


In basso, al centro, un Gesù Bambino, robusto come un piccolo Ercole, tiene nella mano destra una sfera con l’alfa e l’omega, la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco, i simboli tradizionali dell’eternità di Dio.
Lo vegliano un bue dal massiccio corpo geometrico e un asinello legato al palo da una corda.
A destra, si intravede, a mala pena, San Giuseppe, mentre la Madonna inginocchiata prega con le mani giunte. 
Dietro di loro, un muro semidistrutto allude al crollo del paganesimo e al superamento della cultura antica.
A sinistra, sono raffigurati i committenti, probabilmente dei notabili, forse dei magistrati, come farebbe pensare il fatto che indossano la guarnacca, il lungo abito rosso foderato di pelliccia, tradizionalmente riservato ai giudici e ai notai.

Il tetto della capanna, in cui è ambientata la scena, è sorretto da un tronco d’albero non lavorato che sembra quasi nascere dal corpo del Bambino, e che si incrocia con una delle due travi a formare una croce, un simbolo che prefigura la futura Passione di Cristo. 



In alto, sullo sfondo di un cielo nero, illuminato a mala pena da una sottile falce di luna, tre personaggi, in abito quattrocentesco, i tre Magi, sono così assorti nella loro discussione da non accorgersi di quello che succede. 
Solo uno indica verso l’alto, ma la cometa, che forse era raffigurata nella parte mancante dell'affresco, non è così splendente da rischiarare il cielo.

Tutta la scena è di una tale essenzialità che all'epoca- sull'intonaco è incisa una data che è stata letta come 1431 o 1437- probabilmente rappresenta un vero choc per gli spettatori bolognesi, abituati agli scintillii dei fondi oro, ai dettagli lussuosi e alla ricchezza dei polittici collocati sugli altari delle chiese.
I più aggiornati vi avranno visto l'influenza delle novità elaborate a Firenze, anche se solo pochi avranno riconosciuto il nome del pittore. 
Tanto più che, anche nel panorama fiorentino, Paolo Uccello è un artista a parte (ne ho parlato qui)
Quando dipinge l'affresco bolognese, ha una quarantina d’anni ed è abituato a cercare lavoro fuori Firenze, dove è nato e dove ha avuto la sua prima formazione accanto a Lorenzo Ghiberti: è stato a Padova, a Venezia e ha finito da poco gli affreschi del Duomo di Prato. 
Insomma, ha lasciato la città negli anni cruciali, proprio quando trascorreva la folgorante meteora di Masaccio e cominciavano a fermentare le nuove idee che avrebbero cambiato il modo di fare pittura e di vedere il mondo. 
Pur rimanendo amico degli artisti della sua generazione, soprattutto di Donatello, è rimasto, una voce fuori dal coro, anche per colpa di quello che Vasari definisce il suo "ingegno sofistico e sottile" che lo porta ad appartarsi in solitarie elucubrazioni. 
Vasari, del resto, lo descrive come un originale, un uomo timido, introverso, amante degli animali, soprattutto gli uccelli (e da questo gli deriva il soprannome), ma con una passione ossessiva per quella prospettiva con più punti di fuga già teorizzata negli scritti medioevali e che diventerà il centro di tutte le sue ricerche artistiche

Così anche in questo affresco moltiplica i punti di vista e trasforma la scena in un'astratte costruzione di pure linee geometriche.
Il suo Presepe, di un estremo rigore intellettuale, senza alcuna concessione all'emozione o alla distrazione, invita piuttosto a una meditazione sul significato della nascita di quel Bambino che stringe tra le mani il segno dell’infinito.
Mentre i tre Magi che discutono tra di loro, persi nell'oscurità della notte e ancora ignari della cometa che farà loro da guida, sembrano riflettere, nella loro incertezza, la sua e le nostre inquietudini.









Tra miti e stelle: la volta celeste della Sala del Mappamondo di Palazzo Farnese

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Oroscopi, almanacchi, calendari, lunari: non si parla mai tanto di stelle come in questi giorni. 
E, allora, perché non rivestire il blog dei colori del cielo stellato, con l'immagine del soffitto della Sala del Mappamondo in Palazzo Farnese a Caprarola, in cui sono raffigurati lo zodiaco e le costellazioni dell'emisfero boreale durante il solstizio d'inverno.


Siamo all'interno del Palazzo nell'ultima sala del cosiddetto Appartamento d’inverno, al piano nobile.
Voluto come residenza estiva dal Cardinale Alessandro Farnese, il palazzo fu progettato dall'architetto Jacopo Barozzi da Vignola che dispiegò tutta la sua abilità per farne una delle dimore più belle del tempo. 
Una grande scala elicoidale, cortili interni, terrazzi, un appartamento estivo e uno invernale, un magnifico giardino: tutto è pensato per soddisfare il gusto raffinato del "grande cardinale" (quiè un link sulla storia del palazzo).
Sala dopo sala, i più illustri esponenti della pittura dell'epoca (da Taddeo a Federico Zuccari, al Bertoja o a Raffaellino da Reggio), sotto la guida di colti letterati riempiono le pareti di affreschi, in cui storia, mitologia e perfino sacre scritture sono utilizzate per esaltare la gloria della famiglia.
Fino ad arrivare alla sala del Mappamondo, dove, alle pareti, sono raffigurati, il planisfero e i quattro continenti allora conosciuti. 
Qui, il giglio, emblema araldico dei Farnese, campeggia al centro dell'ovale di stucco che racchiude il dipinto.

Lo sfondo di un blu lapislazzuli che ricorda i cieli degli affreschi medioevali  è punteggiato di stelle dorate e popolato dalle figure mitologiche associate allo zodiaco e alle cinquanta costellazioni già note all'epoca. 
Ma qui non si tratta soltanto di una rappresentazione allegorica. 
Anzi, si è fatto ricorso a tutte le più aggiornate conoscenze astronomiche per raffigurare una mappa celeste più precisa possibile, dove le stelle sono accuratamente posizionate in relazione alle linee che compaiono in bella vista e che rappresentano la proiezione in piano delle coordinate celesti, come l'Equatore, l'Eclittica, i Tropici o i Coluri, fondamentali per orientarsi nel cielo e stabilire la collocazione degli astri.
L’artista che, tra il 1573 e il 1575, esegue questa complessa rappresentazione non è stato ancora identificato con certezza: gli studiosi hanno proposto i nomi di Giovanni de’ Vecchi, oppure di Giovanni Antonio da Varese detto il Venosino, autore dell’analoga Volta celeste  collocata nella Sala Bologna in Vaticano e commissionata da Gregorio XIII. 
In ogni caso, per realizzare una simile raffigurazione, non bastano certamente le sole conoscenze di un pittore. A fornire tutto il progetto iconografico sono il coltissimo astronomo Orazio Trigini de'Mari e Fulvio Orsini, l’erudito bibliotecario e antiquario al servizio del cardinal Farnese. 
Sono loro che trovano negli antichi testi di astronomia le citazioni più opportune per ricostruire nel soffitto l'intera volta celeste.

Alla fantasia dell’artista non resta che sbizzarrirsi nei particolari, come la grande nave di Argo che solca il mare ai confini dell'affresco, il candido Cigno, lo scattante Centauro o i corpi goffi e robusti delle due orse che personificano le costellazioni.


Gli illustri visitatori del Cardinale possono divertirsi a far sfoggio di cultura, controllando l’esatta posizione degli astri, oppure riconoscendo, tra le figure celesti, personaggi come Antinoo, il bellissimo giovane amato dall'imperatore Adriano e trasformato, dopo la morte, in un dio, oppure l'arrogante Fetonte che precipita nell'Eridano con i cavalli imbizzarriti del carro del Sole. 
E possono sfidarsi a scoprire dove sia l'ara su cui Zeus compie il più antico dei sacrifici per assicurarsi la vittoria nello scontro con Crono e dal cui rogo fumante nasce la Via Lattea, che percorre tutto l’affresco come una bianca spirale di fumo.
Lungo la sua candida scia si dispongono tutte le figure grandi e piccole che popolano quel cielo eternamente azzurro, raccontando ciascuna la propria storia e rievocando antichi miti. 
Mentre le costellazioni più lontane della galassia si trasformano nei punti dorati che splendono luminosi sullo sfondo.
Astronomia e astrologia si mescolano, remote leggende prendono vita. 
Quale immagine potrebbe essere più adatta per augurare un felice 2015 sotto la protezione degli astri? 
E allora buon anno e giorni sereni a tutti!  






Chi vuole approfondire troverà qui il link a un bell'articolo che  ripercorre le vicende della storia e dell'iconografia del dipinto. Qui invece è un video per scoprirne tutti i dettagli 
Per chi volesse visitare il bellissimo Palazzo Farnese a Caprarola, le date e gli orari d’apertura sono qui)



I Mesi degli Arazzi Trivulzio: gennaio

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Anno nuovo, calendario nuovo. 
Per illustrare i mesi del 2015 niente miniature, sculture o affreschi come negli anni scorsi, ma i dodici variopinti arazzi di circa cinque metri per cinque, oggi conservati al Museo d'arte antica di Palazzo Sforzesco a Milano.
La serie dei mesi viene commissionata nel 1501, dall'allora governatore di Milano, Gian Giacomo Trivulzio per celebrare il matrimonio dell'unico figlio Gian Nicolò con Paola Gonzaga. 
L'esecuzione è affidata a Benedetto da Milano, capo della prima arazzeria italiana, da poco istituita, a Vigevano. 
Tra 1504 e 1509, insieme ai suoi collaboratori, tessendo fili di lana e di seta, Benedetto dà forma e colore ai grandi cartoni, disegnati da Bartolomeo Suardi detto il Bramantino (1465-1530), con una perizia che nulla ha da invidiare alle più reputate manifatture fiamminghe.
Ed ecco il mese di gennaio:


La scena del mese è rappresenta entro una cornice con gli stemmi dei Trivulzio e delle nobili famiglie ad essi imparentate. 
In alto, tra il sole e il segno zodiacale dell'Acquario, domina un tondo con lo stemma di Gian Giacomo Trivulzio. 
Sopra il cimiero, una figura di donna alata, una sorta di arpia o di sirena, tiene tra le mani una lima che si spezza contro un diamante. 
In un cartiglio, è inscritto in francese antico il motto dei Trivulzio: "ne t'esmai", vale a dire, "non temere" o "non perderti d'animo".

La scena si svolge in una piazza, circondata da edifici che hanno l'aria di una scenografia teatrale. 
Al centro, sopra un'ara classica, Gennaio è personificato da Giano, il dio romano che apre e chiude le porte, protettore della pace e della guerra, da cui, secondo un'antica tradizione, avrebbe tratto il nome. 
Il dio bifronte, con un volto barbuto e uno glabro, tiene in una mano un bastone con cui indica il sole e nell'altra una gigantesca chiave. 
Nella parte anteriore dell'ara è incisa l'iscrizione: "Palos acuit ut vitibus/ foetura aves cortis vocat/iungit boves pulsa solo/ et Ianuarius nive""Gennaio aguzza i pali per le viti, richiama i polli nei cortili e, tolta la neve dal suolo, aggioga i buoi". 
Le attività del mese non sono molto impegnative, ridotte come sono a pali da aguzzare e polli da scacciare. 
Col gelo il terreno diventa troppo duro ed è impossibile lavorare nei campi, tanto che i contadini sono obbligati a un ozio forzato. 
Sulla destra, gli attrezzi agricoli giacciono inutilizzati a terra, un uomo siede spossato accanto a un bambino, mentre un giovane in piedi, con le braghe tutte stracciate, impugna svogliatamente una vanga e sembra assorto nei suoi pensieri. 
Tutt'intorno, la gente festeggia un carnevale precoce: a sinistra, ai piedi dell'ara, uno zampognaro tiene accanto a sé una brocca e due bicchieri pieni a metà. 

Al suono della zampogna, quattro persone accennano i passi di una danza moresca. 
L'uomo in primo piano indossa un turbante, così come la donna che, alla maniera orientale, ha il volto velato. 

Anche i personaggi sullo sfondo, abbigliati in maniere bizzarre, sembrano danzare: uno è nudo, mentre due indossano strani costumi a scaglie e portano bastoni, a cui sono appesi dei palloni o delle vesciche di maiale gonfie d'aria, com'era uso nei carnevali del Nord. 







A destra, una zona più scura del suolo sembra indicare la presenza di una lastra di ghiaccio che riflette alcuni passanti. 
Il clima è freddo, anche se il cielo, in cui si intravedono stormi di uccelli in volo, è di un azzurro terso. 
Dalle finestre, uomini e donne si affacciano incuriositi per vedere quello che succede nella piazza, mentre le porte dell'edificio circolare sullo sfondo sono chiuse, come quelle del tempio che i Romani avevano dedicato a Giano e che restavano serrate in tempo di pace.

Ed è, appunto, la pace che Gian Giacomo Trivulzio vuole celebrare. 
All'epoca, è un uomo maturo, un condottiero, spregiudicato, più portato alla guerra che alle arti e che è sopravvissuto indenne a tutti i cambiamenti e a tutti gli intrighi, mutando bandiera a seconda della sua convenienza. 
Dagli Sforza è passato al servizio degli Aragona e poi a quello dei francesi, ingaggiato con una cifra da capogiro per guidare le loro truppe contro il Ducato di Milano. 
Dopo la cacciata di Ludovico il Moro, è stato nominato dal re Luigi XII Maresciallo di Francia e governatore della città.
Ora che è arrivato al potere e che ha consolidato, come meglio non si potrebbe, i suoi possedimenti e le sue finanze, vuole rappresentare negli arazzi gli effetti del suo buon governo e convincere i più scettici che, grazie alla protezione dei Francesi, Milano si appresta a vivere una nuova età dell'oro.
Bramantino ha capito bene i suoi intenti  e nelle scene, ricche di riferimenti classici che ha disegnato per lui, gli fornisce le immagini che desidera.
A gennaio, Giano, con la sua grande chiave celebra la pace, chiudendo le porte del tempio; per le strade si improvvisano danze carnevalesche, dimenticando le paure della guerra e i rigori della stagione, mentre il sole splende imperturbabile nel cielo.
La realtà, però, è ben diversa: poche danze e poco ozio, ma inquietudine e preoccupazione. 
Solo nelle sale del suo lussuoso palazzo, guardando gli arazzi appesi alle pareti, preziosi come quelli che solamente i più ricchi aristocratici si possono permettere, Gian Giacomo Trivulzio può continuare a sognare.







Un bel libro per approfondire le vicende e l'iconografia degli arazzi è: G.Agosti e J. Stoppa, I mesi del Bramantino,ed.Officina Libraria 2012

"Dipingere col sentimento": il "Vaso di Fiori" di J.S.Chardin

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Ci sono giornate in cui si ha voglia di una pausa per sfuggire alla concitazione e al fragore che si sente intorno. 
In questi momenti non c'è nulla di meglio che fermarsi per un po' e, magari, prendersi il tempo di guardare un dipinto come questo: una piccola tela (44x36cm) di Jean-Siméon Chardin con un "Vaso di fiori", ora alla National Gallery di Edimburgo.


Su uno sfondo bruno, su un ripiano di pietra, è appoggiato un vaso bianco con le decorazioni blu tipiche della maiolica di Delft, con un mazzo di garofani, tuberose e piselli odorosi. Tutto qui.
Il dipinto non è firmato né datato, ma probabilmente è da riferire alla metà degli anni '50 del Settecento.
Jean Siméon Chardin (1699-1779), all'epoca, ha una sessantina d'anni e può dirsi soddisfatto del percorso che ha compiuto, malgrado all'inizio abbia fatto le sue scelte fuori dagli schemi più collaudati: agli insegnamenti accademici, ai viaggi di formazione e allo studio dei grandi maestri del passato, ha preferito, da sempre, la rappresentazione della realtà. 
Per questo- nella sua produzione- ha dato largo spazio alle "nature morte", anche se si tratta di un genere collocato all'ultimo posto nelle rigida gerarchia dell'epoca, dopo la pittura di storia (mitologica o sacra) il ritratto e la scena di genere.
A costo di limitare la sua carriera, Chardin è rimasto fedele all'idea di dipingere "nel modo più vero possibile", privilegiando l'osservazione diretta di tutti i più minuti aspetti del quotidiano.

Come in questo dipinto, l'unica composizione floreale che sia arrivata fino a noi.
Inutile cercarvi dettagli lussuosi o quegli effetti trompe-l'-oeil, tipici dei sontuosi trionfi di fiori della pittura fiamminga. 
E nemmeno occorre scoprirvi simboli o astruse allegorie.
Chardin ha scelto di bandire ogni elemento superfluo e di concentrarsi solo sull'essenziale. 
La sua è una pittura che si basa tutta sulla variazione degli effetti di luce e su piccoli tocchi di colore, dai bianchi, verdi e rosa dei fiori, all'azzurro che spicca sul fondo candido del vaso, al rosso vivo del garofano posato sul ripiano.
Le pennellate vibranti, a tratti pastose, a tratti più sottili, arrivano quasi a scomporre la materia, tanto che un grande studioso come Charles Sterling può sostenere che questo piccolo dipinto "sorpassa tutto ciò che dipingeranno in questo genere Delacroix, Millet, Courbet, Degas e gli impressionisti. Solo in Cézanne e nel suo seguito si può pensare di trovare tanta forza in tanta semplicità"
La semplicità, appunto, è la chiave per comprendere questa tela, immersa in una luminosità pulviscolare e talmente disadorna e priva di orpelli, da restituire una sensazione di intimità e di quiete, che arriva dritta al cuore.
Malgrado la sua austera sobrietà, provoca in noi una tale pienezza di sensazioni da giustificare l'affermazione di Chardin, riportata nel 1780 da uno dei suoi biografi, Jean-Nicholas Cochin: "Chi vi ha detto che si dipinge con i colori? Ci si serve dei colori, ma si dipinge col sentimento".

Un "Vaso di fiori", niente altro. 
Eppure in questo dipinto si ritrova tutta la magia di Chardin, quella qualità misteriosa che aveva colpito uno dei suoi più grandi estimatori, l'esponente di punta dell'illuminismo francese Denis Diderot.  
Nella silenziosa armonia di questa composizione c'è quell'incanto che Diderot ritrova in tutta la sua pittura e che tuttora ci induce a soffermarci per osservarla "alla maniera del viaggiatore che, stanco del suo andare, si siede quasi senza accorgersene, non appena trova un letto d'erba, silenzio, acqua, ombra e frescura" 




Una mostra tenutasi a Ferrara nel 2011 ha ripercorso  l'attività di questo straordinario artista: qui è il link


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