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"Il sogno di san Giuseppe": la luce di Georges de la Tour

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"La completa oscurità della notte è la sola alba che l'uomo possa conoscere"(Giovanni della Croce)



Un dipinto di Georges de La Tour (1593-1652), una tela di meno di un metro per ottanta, ora al Musée des Beaux Arts di Nantes. 


Una scena ridotta all'essenziale con due soli personaggi, un giovane e un vecchio, che occupano tutto lo spazio. I colori sono sobri e tutti giocati nella gamma dei neri, dei marroni e degli ocra, con qualche tocco di rosso e di giallo. 
Pochissimi gli elementi che suggeriscono l'ambientazione: sullo sfondo un tavolo, su cui è appoggiato un candeliere di rame con una candela accesa e le forbici per tagliare lo stoppino. 
A sinistra, l'angelo, un giovane, vestito con una lunga tunica, chiusa da una bella cintura ricamata, ha la mano sinistra levata verso il cielo, mentre  il braccio destro teso nasconde la candela. San Giuseppe, con il gomito sul tavolo e la testa appoggiata sulla mano, sembra si sia addormentato mentre stava sfogliando il libro che ora giace aperto sulle sue ginocchia. 
Le rughe evidenti del volto contrastano col profilo puro e liscio dell'angelo.


Ma la vera protagonista del dipinto è la luce che  scolpisce differentemente le forme, rivela alcuni dettagli e ne lascia altri nell'ombra, mette in evidenza il raffinato disegno della cintura ricamata e fa trasparire, in controluce, la scrittura del libro. È la luce che suggerisce il movimento, mettendo l'accento sul viso e sul braccio dell'angelo e lasciando la figura del vecchio nella penombra.

Il dipinto racconta l'episodio evangelico del "Sogno di san Giuseppe" con l'apparizione  dell'angelo e la rivelazione della gravidanza divina di Maria. Per rappresentarlo La Tour non ha avuto bisogno di aureole, né di ali multicolori  e nemmeno di quelle nuvole che sembrano accompagnare  tutte le visioni barocche. 
San Giuseppe non è che un vecchio addormentato, stanco di cercare nei testi sacri una risposta ai suoi dubbi. 
Il viso illuminato del ragazzo, da cui sembra emanare luce, è sufficiente a rivelarcelo come un messaggero divino. 
Nessuna concessione al lusso o agli orpelli: la tela sembra avere la severità  e l'austerità di una meditazione spirituale.


Se è sempre un esercizio rischioso cercare di vedere nelle opere un riflesso del carattere degli artisti, tanto più lo è in questo caso.

Georges de La Tour è un pittore misterioso, sfuggente. 
Della sua vita abbiamo solo qualche traccia documentaria che non riguarda, però, il suo percorso di pittore.

Alla sua morte, la sua opera è caduta nell'oblio ed è stata riscoperto solo ai primi del Novecento. Pochi suoi dipinti sicuri, molte le repliche e, forse, i falsi (qui è un link). 
Nessuna notizia di un viaggio in Italia e neppure una prova di come sia arrivata a conoscere le opere di Caravaggio, da cui è rimasto certamente influenzato.


Nato in Lorena nel 1539 entra, grazie al matrimonio, nei ranghi della nobiltà locale e si trasferisce a Lunéville dove vive  e lavora per il duca lorenese, per poi diventare pittore del re di Francia Luigi XIII, sullo sfondo tormentato della Guerra dei Trent'Anni.

Sappiamo che  la pittura non è la sua sola occupazione, che si è arricchito grazie a un'oculata gestione dei suoi terreni e dei suoi poderi. 
La sua riuscita sembra provocare l'invidia di chi lo ha visto nascere da una modesta famiglia di fornai. I documenti parlano del carattere arrogante di uno che si è fatto da sé e che non rinuncia ai vantaggi del suo ruolo di "signore del luogo" con una brutalità di cui i concittadini si lamentano. 
Insomma, apparentemente, niente di più lontano dall'atmosfera dei suoi dipinti.


Dell'uomo e dell'artista però ignoriamo i pensieri, né sappiamo fino a che punto possa essere stato influenzato dall'atmosfera turbinosa di quegli anni con il paese sconvolto dalla violenza e dalla miseria. 
E nemmeno conosciamo i modi della sua religiosità o le sue riflessioni sulle idee dei mistici spagnoli di un Dio come unica luce nelle tenebre, che- sappiamo dai documenti- venivano diffuse proprio in quegli anni in Lorena dai predicatori domenicani.


Certo è che un eco  di quei pensieri rimane nella straordinaria sintesi dei suoi dipinti, nella sua luce, fisica e metafisica insieme, che basta da sola a restituire la sacralità di una scena (quiè un link).
Come qui, dove San Giuseppe e l'angelo sono fermati, come catturati, in un istante che diventa eterno. 
Quella strana immobilità, insieme a quel chiarore trascendente che li illumina, sospende la scena nello spazio e nel tempo. 
In quell'epoca turbata dalla guerra, dalla paura, piena di frenesie e di rumori è come se La Tour fosse riuscito a dipingere il silenzio. 
E in quel silenzio, forse, a trovare pace.







Il calendario di pietra: giugno

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"Dixe Zugno: io sego lo grano, de le cerexi (ciliegie) i'me empo le mano/sego lo fieno de suxo a lo piano e coglio l'agresto (le erbe selvatiche) per farne sauore (condimento)" (Ballata dei mesi, sec.XIV).

Grano, ciliegi, fieno, erbe odorose: nella ballata dei mesi, Giugno si vanta, a buon diritto, di essere il periodo dell'anno in cui la terra si mostra più fertile e feconda. Anche il nome latino, "Iunius", ne riflette la pienezza e l'abbondanza, sia che tragga origine, come qualcuno afferma, da "juniores", i giovani, e simboleggi la forza della giovinezza, sia che, invece, derivi, come sostiene la maggior parte degli studiosi, da Juno, Giunone, la dea sposa di Giove, protettrice dei matrimoni, delle nascite e della prosperità. 
Giugno è il mese del trionfo della luce, del solstizio d'estate e delle giornate più lunghe dell'anno. Il sole, però, non è abbastanza caldo da bruciare e consente ancora di poter falciare l'erba dei campi; le messi sono arrivate a maturazione e la frutta è pronta per essere colta.
Un mese intenso, dunque, per i lavori agricoli raffigurati nei Calendari scolpiti degli inizi del XIII secolo.

Nelle formelle dei Mesi di Ferrara, oggi conservate nel museo della Cattedrale, Giugno è un ragazzo che, con i piedi nudi e la corta tunica rialzata, fermata con un nodo alla vita, si sta arrampicando su un albero (forse un pero) carico di foglie e, soprattutto, di frutti. 


Ha già raggiunto il ramo, più basso e tra un po'assaporerà la dolcezza di un frutto. Una vera squisitezza in un'epoca, in cui la frutta veniva prodotta solo per essere servita alla tavola dei nobili e i contadini si dovevano accontentare di coglierla dai rari alberi che crescevano spontaneamente vicino ai loro orti.
In tutta la formella si respira un'aria di grande vitalità e c'è una precisa attenzione alla realtà, dal gesto del giovane, al particolare della tunica annodata in vita e rialzata in modo da non intralciare il movimento, all'intreccio ombroso dei rami dell'albero. 
Accanto- ed è la prima volta che compare nel ciclo di Ferrara- spicca la presenza del grande granchio che simboleggia il Cancro, segno zodiacale del mese. 

Ad Arezzo l'ignoto scultore del ciclo dei Mesi della pieve di santa Maria Assunta, stavolta non segue, come di consueto, l'iconografia dei Mesi di Ferrara. Sceglie, invece, di raffigurare, in un modo più aderente alla tradizione, la  attività agricola tipica di giugno: il taglio del grano.


"Giugno, la falce in pugno": dice il detto popolare che rispecchia la tradizione. 
Anche qui,  in un campo di spighe gialle che sembrano invadere tutto spazio della rappresentazione, è all'opera un giovane mietitore, a piedi nudi e con una corta tunica fermata alla vita da una cintura. 
Purtroppo i molti secoli passati non hanno risparmiato la scultura, tanto che nel corso del tempo sono andate perse le mani che, sicuramente, impugnavano la falce nei gesti tradizionali della mietitura, tramandati fin dall'antichità: afferrare, con la mano sinistra, un manciata di spighe e tagliarle, con la falce impugnata nella destra, a mezza altezza, in modo da lasciare sul campo le stoppie per alimentare il bestiame che vi avrebbe pascolato. 
La scena occupa uno spazio maggiore delle altre, quasi a sottolinearne l'importanza: per tutti il grano e il pane rappresentavano l'alimento per eccellenza. E qui le spighe, alte e fitte, fanno sperare che il raccolto sarà abbondante.

La frutta, il grano e il pane che verrà: nel ciclo delle stagioni, Giugno è il periodo più fecondo dell'anno, in cui godere dei prodotti della terra e scordare, al calore del sole, le paure e il freddo dell'inverno.





La "ballata per violoncello" di Robert Doisneau

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Un uomo, un violoncello e un grande fotografo: Robert Doisneau (1912-1994)



A Parigi la pioggia cade fitta, ma l'uomo con l'impermeabile bianco non cerca nemmeno di coprirsi con l’ombrello. Anzi, preferisce bagnarsi pur di riparare il violoncello che ha portato con sé. 
Un’immagine famosa, riprodotta migliaia di volte. 
Un'immagine che ha dietro una storia, ma, stavolta, nessuna rivendicazione, nessun processo come quello intentato a Doisneau dai due "falsi" innamorati che pretendevano di essere i protagonisti del celeberrimo "Bacio di fronte all’Hotel de Ville", di cui ho parlato qui.

L'uomo ritratto nella foto, Maurice Baquet, a querelare Doisneau e a richiedere un congruo risarcimento non ci pensa nemmeno: i due sono amici da lunga data, condividono lo stesso senso dell’umorismo e  lo stesso sguardo ironico sulla vita.  
Quando si incontrano, nella Parigi degli anni '40, frequentano gli stessi ambienti, hanno in comune l’amicizia con Jacques Prévert e- in tempi in cui i messaggi e i telefonini sono ancora lontani- intrattengono una fitta corrispondenza epistolare. 
Baquet, all'epoca, non è uno sconosciuto: è un attore di teatro e di cinema, uno sciatore provetto, membro della squadra nazionale francese, e soprattutto, è un violoncellista appassionato che vanta la vittoria del primo premio al Conservatorio di Parigi. Anche se non è riuscito, come avrebbe voluto, a entrare in un’orchestra, la passione per la musica e per il violoncello non lo hanno mai abbandonato.


Di tutti i personaggi delle sue foto  è quello, con cui Doisneau intrattiene il rapporto più allegro e divertito:  per  il suo  un carattere  di una serenità inalterabile lo ha, addirittura, soprannominato, il "mio professore di felicità". 
Senza dubbio si è dimostrato, fin dall'inizio, il complice ideale per mettere in scena una serie di ritratti fotografici, di cui sarà protagonista, o per meglio dire, comprimario. 
La parte principale spetterà al violoncello, grazie a cui Baquet sarà trascinato nelle situazioni più improbabili e negli ambienti più vari, dalla città, alla campagna, dalle piste da sci, alla sala di un teatro. 
Sempre insieme, lui e il violoncello.
Più di cinquanta foto che coprono un arco di tempo lungo trent’anni, a partire dagli anni ’50 fino al 1981, quando  saranno pubblicate in un delizioso libro intitolato, appunto, "Ballade pour violoncelle et chambre noire / Ballata per violoncello e camera oscura".

Partito come un gioco tra amici, si è trasformato, grazie al tocco di Doisneau, in uno di quei "teatrini"che ama tanto. Le foto, viste una di seguito all'altra si presentano come una serie di "messe in scena" in grado di rivelare, conditi con un pizzico di umorismo, gli aspetti più insoliti e stupefacenti della vita.


Ed ecco, ad esempio, come il violoncello possa dimostrare un insospettabile lato sportivo, aspettando  Baquet sulla vetta della montagna


Oppure rientri nel suo ruolo, quando tutt'e due, arrivati proprio sulla cima, improvvisano un concertino con tanto di spartito e leggio, e Baquet apparentemente incurante può sedersi sull'orlo del precipizio



Piazzato sulla schiena come un incongruo zainetto, il violoncello può essere trasportato sulle più impervie piste da sci.



Oppure galleggiare magicamente sull'acqua mentre Baquet, completamente immerso, lo guarda tra stupito e divertito



Immagini di un umorismo tenero e gentile, situazioni sempre diverse, che Doisneau, nelle sue foto, orchestra- è proprio il caso di dirlo- da par suo. 
Piccole storie che vorrebbe "lievi come un battito di ciglia", ma capaci- come poche altre- di regalarci momenti sospesi tra leggerezza e poesia. 




Magari, prendendosi il tempo di ascoltare Maurice Baquet suonare, stavolta davvero, il suo violoncello (quiè il link) 

Robert Campin, "Ritratto di donna": il signore dell'anello

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Un ritratto di donna, conservato alla National Gallery di Londra (qui è un link) 



Apparentemente, niente di meno misterioso dell'immagine di questa giovane col viso incorniciato dal tessuto rigido, bianco e pulitissimo, del soggolo- il pesante velo che copre la testa e il collo, indossato, all'epoca, dalle donne sposate- talmente fresco di bucato e ben inamidato da rivelare i segni di una recente stiratura. 
L'espressione del volto, con le guance tonde e piene, è quella di una ragazza timida: gli occhi sfuggono ogni contatto, l'atteggiamento è serio e compito, con le mani compostamente raccolte in grembo. 
Nessuna ostentazione di uno status sociale elevato tanto che soltanto la veste foderata di pelliccia e l'anello d'oro al dito ne rivelano la ricchezza.


Il dipinto, datato intorno al 1435, è attribuito a Robert Campin (1378/79-1444), insieme a Jan van Eyck, caposcuola riconosciuto della pittura fiamminga e con una fiorente bottega a Tournai, uno dei centri commerciali più importanti del Ducato di Borgogna (per l'attività dell'artista e la sua identificazione col Maestro di Flémalle quiè il link)

La novità della tecnica (olio su tela) e della posa (di tre quarti, anziché di profilo), con il volto che incombe in primo piano e la luce che evidenzia ogni mimino dettaglio, ne fanno, a pieno titolo, uno dei primi ritratti della pittura moderna.
L'identità della giovane, però, rimane ignota.

L'assenza di qualsiasi stemma che ne attesti l'appartenenza a una famiglia aristocratica,  di qualche gesto rivelatore o di un simbolo esplicito lo potrebbero far annoverare tra quei ritratti "silenziosi, infinitamente vicini e, allo stesso tempo, infinitamente lontani"di cui parla  il  grande storico dell'arte Erwin Panofsky.


Ma ecco che un dettaglio illumina di una luce diversa quella giovane dall'apparenza così linda e modesta. 

Se guardiamo bene l'immagine ingrandita del rubino, incastonato nell'anello d'oro che porta alla mano destra, possiamo scorgere una figura. 


E non solo pochi tratti confusi nei riflessi della pietra preziosa, ma un vero e proprio ritratto di un uomo, con tanto di barba, baffi e capelli lunghi. Un'apparizione sorprendente, non c'è che dire. 
Ma chi sarà mai quello strano personaggio? 

Che sia il marito, proprio non  si direbbe. 

Il suo ritratto, che fa pendant con quello della donna, che ha le stesse dimensioni (circa 40x30xm) e un simile motivo a finto marmo dipinto sul retro tanto da far pensare agli sportelli di un dittico, rivela la fisionomia ben diversa di un uomo completamente sbarbato, come dettava la moda del tempo. 



I segni e le rughe sul volto fanno supporre di un'età più avanzata rispetto a quella della moglie. 
Indossa, con fierezza, un capperone, il copricapo  a metà tra turbante e cappello che faceva furore tra  i ricchi del tempo, di un rosso tanto vivace da non passare inosservato
La veste foderata di pelliccia, è, invece, di quel nero brillante, imposto dalla corte di Borgogna come colore di moda. 
Anche qui, nessun elemento che lo faccia individuare con precisione: l'aria è quella di un agiato borghese, attento alla propria immagine e pronto ad adeguare il suo abbigliamento a quello in uso dall'aristocrazia.
L'espressione è talmente  seria e pensosa, che si stenta a credere sia capace di farsi raffigurare, scapigliato e fornito di barba e baffi, in un anello

, sia pure al dito della legittima consorte.
Eppure, il rubino, simbolo d'amore ardente, sarebbe la pietra più adatta a un pegno amoroso.


Lo studioso, che, qualche anno fa, dotato di lente d'ingrandimento- si suppone- di prim'ordine, ha scoperto l'immagine, ha ipotizzato che si trattasse di un autoritratto del pittore. E come "il più piccolo autoritratto del mondo"ha avuto il suo quarto d'ora di celebrità nei titoli dei giornali (quiè un link).

Ma perché mai Robert Campin si sarebbe effigiato in quell'anello?

Certo, il carattere del pittore, così come lo  possiamo ricostruire dai documenti, non doveva essere ordinario. Si può intuire, invece, un uomo dalla personalità battagliera, che partecipa da protagonista alla rivolta della città di Tournai contro l'autorità borgognona, fino a essere condannato a una pena pecuniaria e a calmare i bollenti spiriti con un pellegrinaggio al santuario più vicino.

E, poi, se vogliamo tuffarci nel pettegolezzo più spinto, possiamo supporre che non fosse nemmeno insensibile al fascino femminile, tanto che proprio al tempo del ritratto, era stato bandito dalla città per il reato di adulterio e solo grazie all'intervento della duchessa Maria di Borgogna, la pena era stata commutata in una multa. 

Possibile, allora, che la piccola immagine, quasi invisibile a occhio nudo, nasconda una dichiarazione d’amore per la giovane sposa?

 
Forse è azzardato pensare a un simile omaggio offerto proprio sotto gli occhi sospettosi del marito E rimane da capire  perché, in un momento, in cui la moda imponeva di rasarsi- e gli artisti non facevano eccezione- si sia raffigurato con baffi e barba fluente.

Oppure, suggestionati dal cangiante riflesso rosso del rubino, possiamo spingerci oltre ed evocare fiamme diverse da quelle dell'amore. 
Fino a intravedere nell'anello, addirittura la figura di un demone, messo lì come una tentazione o una sfida alla virtù, anche troppo ostentata, della giovane.

Può darsi, invece, che non sia in gioco alcun sentimento, né tanto meno si tratti di sfide infernali o di amori adulterini, ma  che, al pari di Petrus Christus e della sua mosca dipinta, qualche anno dopo, nel "Ritratto di Certosino" (qui è il link), Robert Campin abbia voluto offrire, col minuscolo ritratto, solo una dimostrazione della sua abilità di pittore.

Oppure....chissà...le ipotesi potrebbero essere tante, ma tutte arbitrarie.
L'enigma dell'anello rimane aperto e forse è giusto lasciare ai capolavori la loro parte di mistero.
La donna del ritratto, protetta dai suoi candidi veli, può, così, continuare a sfuggire il nostro sguardo, senza svelare fino in fondo i suoi segreti.




Il "Cenacolo" di Leonardo da Vinci: il posto di Giuda

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Il “Cenacolo” di Leonardo da Vinci per il refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie a Milano, non ha certo bisogno di presentazioni. 


Qualche amante della statistica ha calcolato che, insieme al polittico dell'"Agnello mistico" di Jan van Eyck (ne ho parlato qui), sia l'opera d'arte, su cui è stato scritto di più. Comprese le rutilanti fantasie di Dan Brown e del suo "Codice da Vinci".

Un grande- in ogni senso- dipinto (4,60 metri x 8,80), che, danneggiato fin dall'inizio a causa della tecnica usata da Leonardo, appare oggi, malgrado tutti i restauri, come uno straordinario, quanto degradato, fantasma.

Un dipinto complesso da tutti i punti di vista, dallo stile, all'iconografia.

Impossibile affrontarlo di petto: come succede per tutti i capolavori, è più facile analizzarlo dettaglio per dettaglio. 
E, magari, dopo la prima emozione, concentrarsi su un solo particolare. Oppure su un solo personaggio: Giuda, per esempio.


Negli anni tra 1494 e '98, in cui Leonardo lavora all'affresco, le regole della rappresentazione dell'Ultima Cena sono pressoché stabilite: Giuda, generalmente, è raffigurato senza aureola e dalla parte opposta del tavolo rispetto agli altri apostoli.

Nel Cenacolo di Leonardo, invece, no: nessun apostolo ha l'aureola e Giuda siede in mezzo a loro. Nessuna separazione, nessuna esclusione.

Il posto di Giuda non è, certo, un dettaglio da poco. 
Nella scelta di questa iconografia, molto meno corrente, probabilmente, Leonardo è stato influenzato dai colloqui col priore del convento, il domenicano Vincenzo Bandello, sui temi della Grazia e della salvezza che, in quegli anni, erano al centro delle discussioni teologiche e agitavano non poco le coscienze. 
La dottrina domenicana, sulla base degli scritti di Tommaso d'Aquino, si opponeva all'idea della predestinazione, invocando, anche per Giuda, la possibilità della libera scelta.


Un concetto importante che Leonardo realizza con una grande idea.

Nel suo affresco sceglie, infatti, di non rappresentare l'istituzione dell'Eucarestia, come generalmente si usava.
Preferisce, invece, raffigurare un altro momento della Cena: quello immediatamente successivo, alle parole con cui- stando al testo di Giovanni (13,21)- Gesù afferma: "In verità, vi dico che uno di voi mi tradirà".

Parole che pesano come pietre.

Dopo questa drammatica rivelazione, una tempesta di emozioni sconvolge tutti. 
Disposti in gruppi di tre, alla destra e alla sinistra di Cristo, gli Apostoli, sono sommersi da un'ondata di sentimenti che Leonardo rivela, attraverso i loro gesti. 
È la rappresentazione di quei "moti dell'anima", di cui ha parlato nel suo "Trattato della pittura", di cui ha riferito nei suoi taccuini e per cui ha fatto una serie di disegni preparatori. 


All'epoca, quando la sala non era ancora un museo, ma il refettorio del convento, lo spazio fittizio dell'affresco doveva apparire come un prolungamento di quello reale: la tovaglia, le stoviglie, i cibi frugali sulla tavola dipinta erano gli stessi usati alla mensa dei frati.

Nel silenzio, rispettato da tutti e interrotto solo da qualche lettura religiosa, l'impressione di chi guardava l'affresco era quella di assistere a una "rappresentazione sacra". Un "teatro gestuale", dove ogni volto, ogni gesto rispecchiava tutta la gamma delle emozioni provate dagli spettatori.


E dove ogni atteggiamento sembra identificare un carattere, tanto che ogni Apostolo è indagato nella sua psicologia, così come era descritta nei testi agiografici del tempo.
E ognuno di loro reagisce alla rivelazione di Gesù in modo diverso.

C'è chi si meraviglia, chi si angoscia, chi è sconcertato, chi rimane incredulo, chi porta le mani al petto quasi a discolparsi.

Le braccia si sovrappongono in un gesticolare turbinoso, più convulso verso il centro della tavola, più pacato all'esterno mano mano che gli apostoli percepiscono, fino in fondo, il senso delle parole.


In quella tavola affollata, solo due figure rimangono immobili.

Cristo, al centro prospettico della composizione, anche lui senza aureola, ma illuminato dal chiarore della finestra contro cui si staglia, siede, con le mani abbandonate, in una posizione che richiama quella della Pietà.

In mezzo a tutta quella concitazione, è come se fosse solo, concentrato sul dolore e sulla sofferenza che lo aspetta.

L'altro che rimane fermo e quasi bloccato, nel gruppo animato degli Apostoli, è Giuda.

Cristo e Giuda sono gli unici che sanno. E la loro consapevolezza li isola da tutti.


Giuda è seduto tra Pietro e Giovanni, completamente assorti  in una conversazione che lo esclude. I due rivelano, l'uno nella sua quieta mitezza, l'altro nel suo desiderio di azione, la differenza della loro indole. 
Pietro sta per chiedere, tramite Giovanni, quella spiegazione che tutti aspettano e, con un gesto maldestro, nasconde il coltello, con cui, poco dopo, ferirà il servo del grande sacerdote.

Guida, invece, col gomito poggiato sulla tavola, cerca di coprire, con la mano destra, la borsa dei denari.

E, al contrario degli altri due, rimane in silenzio.

La luce, che si concentra su Cristo, lo lascia- rispetto agli altri- completamente in ombra.

Gesù non ha ancora rivelato, intingendo  il pane, il suo tradimento.

Ancora per pochi istanti, Giuda potrebbe essere  libero di scegliere. 
Ed è proprio questo il momento che Leonardo ha fissato nella sua pittura e che consegna alla nostra riflessione. Dopo sarà troppo tardi

Non appena Gesù rivelerà il suo nome, Giuda abbandonerà il suo posto e consumerà fino in fondo il tradimento. La sua sorte sarà compiuta.
Per lui l'atto finale della Cena è nelle parole del Vangelo di Giovanni (13,30) "preso il boccone, subito uscì. Ed era notte". 




Più che un testo specifico dei tanti che sono stati scritti sull'iconografia del Cenacolo, mi viene alla mente il bellissimo racconto di J.L. Borges, in "Finzioni", sulle "Tre versioni di Giuda", riportato integralmente qui 




Il busto di Nefertiti a Berlino: la "bellezza del Nilo"

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Non potevo certo passare qualche giorno di vacanza  a Berlino senza parlare di lei, "la donna più bella di Berlino", come la definiscono i più entusiasti: Nefertiti.



Una piccola scultura in pietra calcarea ricoperta di gesso policromo, alta una cinquantina di centimetri e ora conservata al Neues Museum.

Una donna bellissima, con il collo lungo lievemente inclinato in avanti quasi a sostenere meglio il peso della corona, il naso sottile, gli zigomi alti, le labbra carnose che accennano appena a un sorriso. 
Di un fascino così ammaliante da far dimenticare che uno dei due occhi è vuoto. Solo il destro è completo, con l’iride tagliata in un minuscolo pezzo di cristallo di rocca, su cui è stata incisa e poi dipinta in nero la pupilla, inserito in uno strato di cera trasparente.



Malgrado l'assenza di ogni iscrizione, non ci sono dubbi che l'affascinante "regina policroma" sia Nefertiti (1390-1352 a.C.), "la bella che qui è giunta" stando al significato del suo nome, moglie del faraone Akhenaton, celebre per avere imposto il monoteismo e il culto esclusivo di Aton, il dio del sole

"Signora della felicità, dal viso luminoso": la descrive un’iscrizione funeraria e meglio non si potrebbe dire per questo busto, pieno di dignità e di grazia.
"Ogni descrizione è inutile, bisogna vederla":- scrive l’archeologo tedesco Ludwig Borchard dopo aver scoperto  la scultura- il 6 dicembre 1912- durante gli scavi finanziati dal mecenate James Simon, amico personale dell’imperatore prussiano Guglielmo II. Il sito era quello di  Tell El Amarna, al nord di Tebe, proprio là  dove, per un breve periodo, Akhenaton aveva spostato la capitale del regno. 

E che sorpresa, quando fu ritrovata tra una serie di pezzi tutti provenienti da quello che fu identificato come il laboratorio dello scultore "Thutmosis", responsabile dei monumenti reali. 
Un busto, particolarmente raro nell'arte egizia, che- secondo gli studiosi- poteva servire da modello per i collaboratori meno esperti dell’atelier, specializzato nell'eseguire le teste  delle sculture, mentre i corpi probabilmente erano completati altrove. Quest'affascinante capolavoro, sarebbe stato lasciato incompiuto dallo scultore, quando partì precipitosamente per Tebe.


Il pezzo fu portato a Berlino insieme agli altri, provenienti dallo scavo, mentre la metà dei reperti- secondo gli accordi- veniva lasciata in Egitto. 
Rimase, poi, una decina d'anni nella dimora berlinese  di James Simon, cui spettava la proprietà di molti degli oggetti recuperati, finché, nel 1924 non fu donato al museo ed esposto per la prima volta al pubblico. 
E da allora fu un innamoramento collettivo.

Cartoline, copie, riproduzioni, ma anche citazioni sui giornali, nei cataloghi, studi nelle riviste specializzate: fiumi d’inchiostro versati per descrivere quella bellezza, allo stesso tempo, antica e moderna.

Moderna, appunto! Anche troppo per lo studioso svizzero Henri Stierlin,  che in un libro del 2009, sostiene che il busto sia in realtà un falso. 
Macché regina di 3.400 anni fa!  Macché  moglie di Akhenaton! Il busto altro non sarebbe che una scultura "art déco" fatta eseguire, utilizzando pigmenti antichi, dallo scultore Gerhard Marcks (1889-1981). 
Borchardt avrebbe commissionato lui stesso il  busto-ritratto per avere un'idea dell'aspetto di Nefertiti che "fino ad allora, si poteva vedere solo di profilo così com'era raffigurata nei bassorilievi". 
Una volta esposta, la statua sarebbe stata definita originale "per condiscendenza nei confronti di un principe tedesco che, al suo cospetto, avrebbe manifestato un ammirato stupore". 

L'archeologo, scrive lo studioso svizzero, «non avrebbe avuto il coraggio" di ammettere che era un falso per non deludere un ammiratore di quel calibro. 
Descrizioni di scavo lacunose, se non inesistenti, l'assenza per più di un decennio dalle collezioni pubbliche e, poi, l'idea stessa del busto, con le spalle tagliate in verticale, del tutto inusuale  nell'arte del tempo. 
Senza contare quel profilo troppo moderno, di un'eleganza tipica dell'"art déco". 
Tutto, secondo Stierlin, deporrebbe a favore di un falso.


Niente affatto! Sono insorti gli archeologi e gli studiosi del museo: tutte le analisi fatte finora confermano l'autenticità. E, per di più, lo scultore Gerhard Marcks, di cui parla Stierlin, non sarebbe nemmeno andato in  Egitto. 
Il nome Marcks, che compare tra gli addetti agli scavi, sarebbe, in realtà, quello del fratello dell'artista del tutto digiuno di scultura e incapace di una simile creazione.

Insomma, gli animi si infiammano, la discussione si fa serrata, gli articoli si moltiplicano.

Nel frattempo, Nefertiti, la "bellezza del Nilo", vera o falsa che sia, rimane imperturbabile, mentre il suo sorriso sembra farsi sempre più enigmatico.

Che volete? Le polemiche, la curiosità, l'interesse della gente non fanno che aumentare il suo fascino. Vecchia di tremila anni o  di un secolo, cosa importa? 
A una bella donna, come si sa, non si deve mai chiedere l'età.







Per il libro di Henri Stierlin quiè il link


Il calendario di pietra: luglio

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"Dixe luglio: io fazo i meluni/ batto lo frumento cum grossi bastoni/ Spogliomi in chamixa per il gran sudore/ Faxomi chuoxere de’ boni capponi" (Ballata dei mesi, XIV secolo)


Luglio, il mese che prende il nome da Iulius, Giulio Cesare. 
Luglio, il mese del caldo e del sole ardente
"A luglio gran calura, a gennaio gran fredddura": dice un proverbio molto diffuso che lo contrappone al gelo dell’inverno.

Anche nei Calendari scolpiti dei mesi dell’inizio del XIII secolo, Luglio è il mese del sole e, come avveniva per Giugno, è legato alla coltivazione del grano: l’attività che si usa raffigurare è quella della battitura, la prima fase della trebbiatura.

Ed ecco come appare Luglio nella formella del ciclo di Ferrara, ora conservata al Museo della Cattedrale.



Qui il cavallo è, insieme all'uomo, il grande protagonista. 
Ma non si tratta del focoso destriero di un guerriero o-  come nel mese di Maggio- di un aristocratico cavaliere, ma dell'umile e robusto animale addomesticato  per i lavori più pesanti della campagna. 
La battitura del grano può essere svolta dal contadino manualmente, usando il doppio bastone snodato, il  correggiato, oppure- per i pochi che se lo possono permettere- con l'aiuto, appunto, dei cavalli, che al ritmo cadenzato, dei loro zoccoli, battono le spighe legate e messe ordinatamente a terra, frantumandole e facendone uscire i semi. 
Una pratica, questa, derivata dell'antichità e molto meno faticosa per l'uomo.


Nella formella, Luglio si presenta come un giovane contadino, vestito con la corta tunica estiva e con i piedi nudi,  che, tenendo in mano un bastone, guida due cavalli legati con una corda ben stretta nella mano. 
I fasci di spighe ai suoi piedi sono già pronti per la battitura.


La trebbiatura, nelle sue varie fasi, è considerata allora, l'avvenimento più importante dell'anno agricolo, quello in cui il lavoro dell’uomo assume una dimensione quasi sacra. 
Il pane rappresenta l'idea stessa del cibo. 
Le spighe colme, raffigurate in primo piano, sono un segno di abbondanza. Anche se si sa che la maggior parte  andrà al nobile padrone delle terre, un buon raccolto significa per i contadini la speranza di assicurare nutrimento a se stessi e alle loro famiglie.
I giorni caldi della trebbiatura sono una delle rare occasioni di festa: al lavoro partecipano tutti, giovani e vecchi. Nei campi, a volte, risuona qualche parola di incitamento scherzoso e qualche canto. 
La buona stagione è al suo culmine e la natura si presenta nel suo aspetto migliore. 
Può bastare per sperare di superare le difficoltà quotidiane e, al calore del sole, nella fatica comune, dimenticare ogni preoccupazione per il futuro.  







Canaletto "Il cortile degli scalpellini": il sogno di Venezia

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Basta guardare un dipinto di Canaletto (1697-1768) per ritrovare, in una specie di viaggio nel tempo, la Venezia di tre secoli fa.

Ancora di più se si sceglie non una delle vedute più note del Canal Grande o della piazza san Marco, ma uno scorcio più inconsueto. 
Per esempio questo “Cortile degli scalpellini” ora alla National Gallery di Londra



La tela è ambientata in Campo san Vidal, dove ora il Canal Grande è attraversato dal ponte dell’Accademia. 
In effetti, sullo sfondo, dall'altra parte del canale compare ancora la chiesa gotica della Carità, con il suo campanile non ancora distrutto da un crollo, che oggi, invece, è inglobata nel complesso delle Gallerie dell’Accademia.
È una giornata luminosa di sole e, nel cortile dove lavorano, gli scalpellini hanno raccolto in una baracca provvisoria di legno il materiale necessario al restauro della chiesa di san Vidal (che non appare nella veduta). 
Tra i grandi blocchi di pietra sono sparsi qua e là gli strumenti da lavoro. 
La vita è quella di tutti i giorni.

Una donna corre a riprendere un bambino caduto per terra, un'altra si affaccia dal balcone, forse richiamata dal rumore, mentre i vasi di fiori si alternano alle tende bianche delle finestre. Sullo sfondo, i gondolieri solcano il canale oppure, con le  gondole ormeggiate, aspettano i clienti.


Siamo intorno al 1725 e Canaletto, poco meno che trentenne, è  rientrato a Venezia dopo un lungo soggiorno romano. 
A chi arriva da fuori, la città sembra piena di vita. Anche se dopo la fine della guerra turca e il trattato di Passarovitz nel 1718, ha perso il predominio sul mare, i commerci diminuiscono e le le finanze languono, Venezia è ancora capace di vendere bene se stessa.  
È diventata  una tappa essenziale del Grand Tour, il viaggio di conoscenza che molti intellettuali e giovani aristocratici europei intraprendono verso l'Italia. 
E attira come non mai i visitatori con la la bellezza dei suoi edifici, mai distrutti da guerre, ma anche con i suoi locali pubblici, il suo travolgente carnevale, le sue cerimonie sontuose, i suoi teatri e le sue sale da gioco. 
Con quell'insieme, insomma, di cultura e di gusto per l'avventura, che per molti è irresistibile.  
La sera si aprono al pubblico ben sette sale da spettacolo: tre per la commedia e quattro per l'opera.

Per la  bottega familiare dei Canal, guidata dal padre  specializzato in scenografia teatrale, il lavoro non manca, anzi ce n'è anche troppo. 
Canaletto, però, non ha più voglia di avere a che fare con il mestiere paterno. 
"Scomunicò solennemente il teatro, spintovi dalla indiscretezza de' poeti drammatici e si diede a dipingere vedute al naturale": racconta nel 1771, con un pizzico di drammaticità, Anton Maria Zanetti nel suo testo sulla pittura veneziana.  

Di certo Canaletto non ha rotto i rapporti con la famiglia, anzi continua ad abitare con tutti i parenti nella affollatissima casa di san Lio. 
Ha deciso, però, di iscriversi alla "Fraglia", la corporazione, dei pittori e di dedicarsi a un genere di pittura che allora comincia ad avere successo, "la veduta". Ha fatto bene i suoi calcoli e sa che le immagini della città sono sempre più richieste dai visitatori stranieri, desiderosi di portarsi a casa un souvenir pittorico di Venezia. 
Ha preso a girare per i labirinto delle calli veneziane, armato di matite e di blocchi da disegni per prendere degli schizzi di ogni chiesa, di ogni ponte, di ogni facciata. E si è abituato a percorrere la città da cima a fondo. Niente gli sfugge: l'intonaco sbrecciato di un muro, il davanzale di una finestra, il traffico intenso sul Canal Grande, le gondole ornate di felze che riparano dagli sguardi indiscreti qualche coppia clandestina, la piazza san Marco, il ponte di Rialto ma anche le calli e i rii più nascosti. 
Nei suoi giri per la città incrocia i ricchi patrizi con i loro eleganti abiti alla francese, ma anche i facchini, gli artigiani  e gli uomini e le donne mascherati con la bautta, nel lungo periodo del Carnevale.  
E disegna tutto. Sono proprio quei disegni, gli "scaraboti" come li chiama, che- rielaborati con l'aiuto della camera ottica- saranno la base dei suoi dipinti. (quiè un link)


Quando dipinge "Il cortile degli scalpellini", Canaletto non è si è ancora lanciato nel mercato internazionale, né ha conosciuto quello che più di tutti lo aiuterà nella carriera, il mercante e console inglese Joseph Smith. 
Ancora non è il pittore avido di guadagni che conosceranno, letteralmente a loro spese, molti degli illustri viaggiatori. E non partecipa con le sue vedute monumentali ben accomodate  a "inventare" il mito di Venezia ad uso degli stranieri.

Per questa tela ha accettato di lavorare per un committente veneziano, uno di quelli che non pagano grosse cifre, ma che sanno apprezzare gli aspetti più minuti della vita quotidiana della città. 

E forse per questo Canaletto si sente libero di ritrovare, avvolta in una luce dorata dove prevale il tono dell'ocra e del marrone, l'essenza più vera e profonda di Venezia: quel misto "di splendore e di sporcizia" di una città che nasconde la sua decadenza dietro la più brillante delle apparenze. 
In quell'appartato "Cortile degli scalpellini", in un giornata come tante, la vitalità si mescola alla malinconia di "una Venezia che si sbriciola e si sgretola", avvolta in un teatro di illusioni che sembra, sempre di più, avere la consistenza effimera di un sogno.






Come musica di accompagnamento, non il martellare degli scalpellini, ma le note di un concerto di Tomaso Albinoni, per altro quasi coetaneo di Canaletto: quiè il link



Paul Klee: "Paesaggio con uccelli gialli"

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Orfana, come mi sento, delle emozioni dei Mondiali di calcio, queste lunghe giornate di un'estate a Bruxelles, dove le nuvole stentano a lasciare spazio al sole, mi sembrano fin troppo monotone. Per questo mi venuta voglia di rivestire il blog del colore sgargiante della fantasia. 
E di pubblicare un dipinto come il "Paesaggio con uccelli gialli" di Paul Klee, ora in collezione privata:


Siamo nel 1923 e Klee, all'epoca già oltre la quarantina, lavora in Germania, a Weimar, nella prestigiosa scuola del Bauhaus, dove è stato chiamato da Walter Gropius in persona per insegnare prima rilegatura e poi pittura. Là si è costruito la fama  di un  professore capace di tenere lezioni che incantano i suoi allievi.  
Anche se alcuni ammettono di capirci poco o nulla, tanto sono differenti da quelle tradizionali, i più sono  entusiasti e dicono che "parla come un Dio".
Di sicuro a Klee piace insegnare e cerca di condividere con i suoi studenti  le sue idee e le sue esperienze: dalla formazione all'Accademia di Belle Arti, all'incontro, a Monaco di Baviera, con artisti come Kandinskij, Franz Marc (qui) e gli altri pittori del movimento del Blaue Reiter, all'entusiasmo per il loro nuovo modo di dipingere.
Forse con loro rievoca il momento in cui, dopo un viaggio in Tunisia,  ha scoperto l'importanza del colore che, da allora, considera l'essenza stessa della sua pittura.


Chissà quante volte, nelle sue lezioni, ha ripetuto che l'arte "non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non lo è".
quanto si è sforzato di far capire che "l'arte non deve imitare la natura, ma deve inventarla".
Un pittore, per lui, quando dipinge deve, almeno "per un istante credersi Dio" per creare mondi che abbiano regole proprie e che traggano ispirazione dalla realtà, pur senza raffigurarla troppo fedelmente.  
Fino a inventare, come fa nei suoi dipinti, tutta una serie di universi gioiosi fatti di pesci dorati (ne ho parlato qui) di strane piante, di figure stilizzate che danzano, di palloncini rossi, di case dai tetti aguzzi, di barche, di animali colorati e fantastici.
Da figlio di musicisti e violinista provetto, di sicuro avrà insistito sul valore fondamentale della musica, spiegando che una tela può essere come uno spartito, dove ricreare, con le linee e i segni, la melodia più armoniosa. E dove l'orchestra non si compone di violini, di flauti o di clarinetti, ma di figure geometriche, di frecce, di cerchi o di triangoli.

È quello un periodo, in cui Klee guarda, con sempre maggiore attenzione, ai disegni, dei bambini, cercando di mescolare l'espressività infantile con quella dell'arte primitiva: è solito dire che solo "i bambini, i pazzi o i primitivi, hanno ancora- o hanno riscoperto- il piacere di vedere"
Certo non si scorda che, quando il figlio Felix era piccolo e la moglie era spesso fuori casa per mantenere la famiglia con le sue lezioni di piano, lo ha seguito, momento per momento, costruendo i suoi primi giocatoli, ma soprattutto disegnando insieme a lui e portandolo a "lavorare" con sé nello studio degli amici pittori (come il figlio rievoca qui in una bella intervista). 

Musica, ricordi,  disegni infantili, gusto per il colore: tutto si ritrova in questo paesaggio da favola, dove, in uno spazio senza profondità, in cui si mescolano cielo e terra, giorno e notte, in una specie di foresta tropicale tra bizzarre piante variopinte, svolazzano, a volte capovolti, strani uccelli di un giallo vivo. 
Basta seguirlo in questo suo mondo, magari accompagnati dalle note del suo amato Mozart (quiè un link), per essere sicuri che, da grande fantastico mago qual è, ancora una volta Paul Klee saprà portare una ventata di allegria e illuminare la giornata più grigia con le tinte variopinte dei suoi sogni







La "magia nera" di René Magritte

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"C'est un acte de magie noire de transformer la chair de la femme en ciel" (René Magritte)



Sarebbe bello, in questo fine settimana di luglio, andare al mare.
E, invece, no: devo rimanere a Bruxelles. Però un rimedio per rinfrescare la testa (e le idee) c'è: andare al Museo dedicato a René Magritte, sostare davanti a uno dei suoi quadri più affascinanti, "La magia nera" e immaginare la storia che c'è dietro. Magari una storia d'amore




In una loggia aperta su un azzurro di cielo e di mare, una donna nuda, con la testa china, sembra assorta in se stessa. Forse sta meditando o forse sognando.
Il soggetto potrebbe essere tutto qui, un "Nudo di donna" come tanti altri, se il pittore non fosse René Magritte. 
Ma ecco il suo tocco inconfondibile! Gli basta intingere il pennello nell'azzurro dello sfondo per trasformare parte del corpo della donna nella stessa materia del cielo. 
E ora sembra quasi che aspetti le reazioni degli spettatori, come un mago contento del suo incantesimo.
Tanto più che ha dato al dipinto un titolo, "La magia nera", che riassume bene quale sia, secondo lui, il potere della pittura.

"Trasformare la donna in cielo: questo è l'atto di magia":- taglia corto, se deve rispondere a chi gli chiede il significato del quadro.
"La potenza del mistero si manifesta, evocando il mistero degli esseri familiari": afferma. 
Per lui, in effetti, non c'è niente di meglio che raffigurare e  trasformare gli aspetti più conosciuti del quotidiano per provocare uno spiazzamento, una di quelle che chiama  "fratture della realtà". 
Ho già parlato più volte dei dipinti di Magritte (quiè il link), di come gli oggetti della vita di tutti i giorni, visti fuori del loro contesto, vi assumano significati inaspettati e di come le persone rappresentate nei suoi ritratti  si possano rivelare enigmatiche e ambigue.

Quando, nel 1933, dipinge la "Magia nera", Magritte è già ben cosciente dei suoi mezzi di artista. Rientrato a Bruxelles, dopo un soggiorno a Parigi dove ha aderito con convizione al Surrealismo, si è stabilito, con l'inseparabile moglie Georgette, al pianterreno di una casetta di periferia. 
Per vivere disegna manifesti pubblicitari in un atelier che si è costruito in giardino. I suoi quadri, invece, li dipinge a un cavalletto, piazzato vicino alla porta che dà sul cortile. 
Per le riunioni con il gruppo dei surrealisti belgi c'è appena un tavolo  tra la cucina e il salotto dipinto d'azzurro, dove Georgette suona il piano, mentre dall'attaccapanni dell'ingresso è appesa l'immancabile bombetta (della loro casa e del loro armadio rosso ho parlato qui
Magritte, all'epoca, ha già cominciato a costruire la sua vita in modo che, dall'esterno, sembri scorrere entro i binari del più piatto conformismo. 
Completo scuro a doppio petto, capelli dal taglio impeccabile, bombetta e cane al guinzaglio, fanno parte integrante della sua nuova immagine.
Si è convinto che, solo immergendosi fino in fondo entro gli schemi, sarà libero di scardinare, dall'interno, tutte le convenzioni.

"Amour", foto del 1928, Fondation Magritte
Georgette, come sempre, gli è accanto.
Si sono conosciuti tra le giostre di una fiera di paese e si sono rivisti a Bruxelles. Lì si sono innamorati e, giovanissimi, si si sono sposati (della loro coppia ho parlato qui)
Non hanno avuto figli e, forse per questo, sono ancora più uniti.
Lei condivide le sue idee e lo asseconda con ironia, tanto da entrare nella cornice piccolo-borghese, che lui sta costruendo, arricchendola con i suoi improbabili cappellini, i colletti e i guantini di pizzo. 
Ma è anche la prima a scatenarsi negli scherzi fotografici organizzati con gli amici.
Soprattutto, è disponibile a fargli da modella e a nascondere e, insieme, a svelare il suo mistero. Chi se non lei potrebbe prestarsi a essere trasfigurata, da un tocco di "magia nera", in una donna metà celeste e metà terrena? 


E mentre, nel dipinto, le pareti del loro piccolo appartamento sembrano aprirsi in uno sfondo infinito di mare e di cielo, il fascino di Georgette consente a Magritte di catturarci nella trappola della sua pittura 



Per chi voglia riscoprire René e Georgette in quella Bruxelles che tanto gli assomiglia, copio da un post precedente un itinerario da percorrere in città:
La prima tappa è il Musée Magritte (qui) anche se Magritte mi pare vi sia  fin troppo “museificato”, con un allestimento troppo “serio” per l’ironia dei suoi dipinti.
Per conoscerlo davvero, è meglio visitare la lora casa di Jette (qui) che ora è  aperta al pubblico. Qui si possono ritrovare non solo l'ambiente che ho descritto, ma anche tutti gli elementi che compaiono nei suoi quadri.
Da prevedere, poi, un passaggio (con birra obbligatoria) nei bistrot preferiti: La Fleur en papier doré (qui), dove si trovavano tutti gli amici surrealisti e il Greenwich (qui), ora interamente restaurato, dove, ogni tanto, Magritte giocava a scacchi,  fumando l’immancabile pipa.
E' visibile, ma solo dall'esterno, anche l'ultima abitazione, la villetta di rue de Mimosas, dove Magritte, insieme a Georgette, è stato  fotografato tante volte nei suoi ultimi anni di vita, quando era diventato ricco e famoso, grazie ai collezionisti americani.
A me  e a mio marito piace, ogni tanto, fare anche una visita al cimitero di Etterbeck, dove riposano insieme e dove, a ricordarli, c'è solo una semplicissima lapide con  la scritta "René et Georgette Magritte" 
A volte cediamo alla tentazione di portare dei fiori, anche se sappiamo che lui- brusco com'era- non li avrebbe graditi e che avrebbe esclamato con il suo inconfondibile accento belga:  “Quel gaspillage! Che spreco!”.





"La quercia di Flagey" di Gustave Courbet: una storia a lieto fine

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Fa piacere, in questo momento così difficile per il patrimonio storico e artistico italiano, sottoposto ad attacchi da tutte le parti, leggere una storia che va a finire bene. Peccato, però, che si svolga in Francia. 
Protagonista è un bellissimo dipinto di Gustave Courbet (1819-1877), "La quercia di Flagey", una tela di 89x110 cm, ora al Museo Courbet d'Ornans. 
Eccolo qua:


Il grande albero occupa, con la sua chioma verde, tutto lo spazio della tela e i rami, pieni di foglie, sembrano talmente vitali da oltrepassare i bordi della cornice. 
È un dipinto di una grande forza.
Quando lo esegue, nel 1863, Gustave Courbet è un uomo e un artista maturo.
Nato a Ornans, tra le montagne e le foreste del Giura, ha compiuto gran parte della sua carriera a Parigi. 
Con il suo carattere aperto e irruente si è saputo fare molti amici, difendendo i principi del movimento "realista", di cui è accreditato caposcuola, grazie alla sua ostinata volontà di ritrarre la vita che gli sta attorno, senza abbellimenti né artifici. 
Ma si è procurato anche dei nemici. E non pochi. 
Spirito indipendente, tiene più di ogni altra cosa alla sua libertà e, di certo, non nasconde la sua vicinanza al socialismo e le sue idee anarchiche e libertarie. 
E neppure la sua opposizione al governo dell'imperatore Napoleone III. 
I suoi principi li esprime a voce alta e forte, senza compromessi e senza mezze misure. È sempre pronto adiscutere con gli amici, ama la vitalità e la confusione della città, ma nel suo cuore la campagna in cui è nato e cresciuto occupa il posto più importante. 

Il padre possedeva, a poca distanza da Ornans, a Flagey, una fattoria con tanto di animali e vasti campi coltivati: in quegli spazi Courbet si sente libero di essere se stesso. 
Si fa costruire un atelier, dove può lavorare tranquillamente e prende ad andarci sempre più spesso. Per i suoi amici parigini, artisti e letterati, organizza battute di caccia. Oppure li ospita tutti insieme con le loro compagne, pur sapendo che, con i loro abiti all'ultima moda e i loro atteggiamenti spregiudicati, scandalizzeranno i ben pensanti. 
Ma a Courbet dello scandalo e dei pettegolezzi poco importa. 
Là si trova a suo agio, attratto com'è da quegli orizzonti aperti e anche dalla vita frugale e severa dei contadini, di cui, comunque, sa riconoscere la difficoltà e la durezza. Gli piace fare lunghe camminate tra i sentieri rocciosi lungo il corso del fiume e dipingere a cavalletto, all'aria aperta. 

È proprio li che raffigura la grande quercia. 
Più che un paesaggio, una sorta di ritratto, o meglio- com'è spesso stato detto- di autoritratto- perché in quell'albero robusto, fortemente radicato alla terra, sembra raffigurare la parte più profonda di se stesso. 
E lo dipinge con il suo tronco nodoso e l'ombra delle fronde sul suolo con un'attenzione e una precisione quasi  affettuosa, foglia per foglia. 
Poi gli dà un sottotitolo, "Quercia di Vercingetorige presso Alesia, Franca Contea", che prende in giro Napoleone III la sua ipotesi, avvallata da studiosi reverenti, di situare il luogo della storica battaglia tra Galli e Romani non nel Giura, ma in Borgogna. 
Un dipinto, dunque, legato all'amore per il paese natale e la sua storia. 
Fatto per quei luoghi, per quella luce e per quella atmosfera. 

Eppure, il quadro lascia, già a fine Ottocento, Ornans e la Francia per essere venduto negli Stati Uniti e arrivare, poi, fino in Giappone, dove viene comprato da un ricco industriale
Ormai talmente lontano da sembrare quasi perduto. 
E, invece, quando si viene a sapere che l'intera raccolta del collezionista giapponese è in vendita, a Ornans, dove intanto è stato creato il Museo Courbet, si comincia a sognare di un ritorno. 
Certo non è facile convincere il proprietario a vendere quell'unico dipinto al piccolo Museo, separandolo dal resto della collezione. 
E, poi, il prezzo, di quattro milioni e mezzo di euro, sembra inarrivabile per una cittadina di quattromila abitanti. 

Ma i più ottimisti (o i più ostinati) sono convinti che i desideri a volte si realizzano e pensano di organizzare un sottoscrizione. 
Con grande sorpresa scoprono che a rispondere all'appello sono più di millecinquecento. 
E che a ricompare il quadro ci tengono tutti, non solo le banche, gli industriali o i commercianti più agiati per farsi una facile pubblicità.  
È, invece, una comunità intera a sentirsi coinvolta, tanto che, a inviare gli assegni, anche solo di appena dieci o quindici euro, sono le persone più comuni, i contadini, gli operai i pensionati. 
Sembra impossibile ma, col contributo di tutti, si arriva- e qui le cifre sono importanti-  a due milioni e settecentomila euro. Il resto lo metteranno le istituzioni locali e il Ministero della cultura
Il sogno diventa realtà e, finalmente, il 9 marzo del 2013, il quadro è pronto per essere appeso, al posto d'onore, su una parete del museo (qui). 

Chissà in quanti ricordano che Courbet, dopo la caduta di Napoleone III, nel 1871, partecipò da protagonista alla Comune di Parigi. Dopo la sanguinosa fine di quell'esperienza fu arrestato, condannato a sei mesi di prigione e- con l'accusa di averne autorizzato la distruzione- obbligato a pagare le enormi spese della ricostruzione della Colonna Vendôme (qui). Un pretesto, forse, per allontanarlo dalla vita pubblica e costringerlo, a rifugiarsi in Svizzera, dove morì, sei anni dopo, lontano da Parigi e dai luoghi che tanto aveva amato.

E ora, con la grande festa che saluta l'acquisto del dipinto, la sensazione è che non si celebri solo il recupero di un quadro. 
Per molti, con la sua grande quercia, è Courbet stesso che è tornato a casa.





Il calendario di pietra: agosto

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Dixe agosto: io cunzo le botte/ Vago cerchando quale eno più rotte,/ mettole fuora de dì e de notte/perché ne esca lo male savore(Ballata dei Mesi del XIV secolo)


Non si direbbe, ma siamo nel pieno dell'estate, ed è già Agosto, l'ottavo mese dell'anno.
Un mese "imperiale", almeno se si giudica dal nome che gli fu attribuito in onore di Augusto: fu il Senato romano a ribattezzare così il più banale "sextilis" e ad assegnargli un giorno in più, in modo che ne avesse il massimo, trentuno, e non sfigurasse a confronto del vicino Luglio, dedicato a Giulio Cesare. 
Le feste di metà mese, furono allora chiamate "feriae Augusti", diventate poi ferragosto e rimaste, fino a ora, un periodo di vacanza.
Chi può va in viaggio, in montagna o al mare: tutto il mese, del resto, è considerato tradizionalmente riservato all'ozio e al riposo. 

Vacanze, ozio? Niente di tutto questo nei calendari di pietra di Ferrara e di Arezzo degli inizi del XIII secolo da cui, quest'anno, ho deciso di "staccare un foglio" ogni primo del mese.
Di vacanza, a quei tempi, non si parla di sicuro: un periodo di riposo, se pure c'è, è concesso solo ai signori. 
I contadini, se hanno un momento libero, si dedicano alle riparazioni degli arnesi che serviranno di lì a poco: sanno che, dopo la fine della trebbiatura, devono già prepararsi alla vendemmia. 
L'avvicendarsi della stagioni, per loro, è scandito dagli stessi gesti, dallo stesse occupazioni che si ripetono invariate di padre in figlio, di generazione in generazione.
Non conoscono, con tutta probabilità, le "Feriae Augusti", né, tanto meno, quale sia il nome del mese o l'antico imperatore che glielo ha dato. 

Sanno, però, che è arrivato il tempo di riparare le botti. 
Ed ecco che, nella formella del ciclo di Ferrara, ora conservata al Museo della Cattedrale, all'ombra di un fico carico di foglie e di frutti, un giovane contadino, a piedi nudi e con la corta tunica legata in vita dalla cintura, curva le spalle in avanti e, con l'espressione assorta, si china su una botte, composta da doghe chiuse da cerchi di vimini o di salice intrecciato. 
Purtroppo, le ingiurie del tempo non hanno risparmiato la formella e mancano le mani e parti delle braccia.


Come si svolgesse la  scena, lo si capisce meglio dal mese di Agosto del Ciclo della Pieve di Santa Maria Assunta ad Arezzo, che deriva dal ciclo ferrarese, ma che- a differenza di quello- è rimasto intatto perfino nei colori.
Anche qui, sullo sfondo, c'è un rigoglioso albero di fico che, con la promessa della dolcezza dei suoi frutti, sembra rendere meno dura la fatica. 
Un giovane, abbigliato di una corta tunica estiva, consolida con un mazzuoloalternando i colpi, le doghe e i cerchi di una botte




Sa bene quello che deve fare: "un colpo al cerchio e uno alla botte". 
Gesti antichi e talmente ripetuti da diventare un modo di dire dei più comuni.  
La riparazione delle botti è un lavoro duro.
Un lavoro essenziale, anche se ai più può parere meno importante delle attività legate alla coltivazione del grano o alla vendemmia, che da sole occupano gran parte dell'anno e a cui partecipano tutti. 
Eppure, anche questa occupazione, che sembrerebbe secondaria, trova il suo spazio nelle rappresentazioni dei Cicli dei Mesi. 

Per i contadini che, in occasione delle feste comandate, entrano nelle chiese, immagini come queste sono importanti. 
Rappresentano, per loro, la conferma che- scolpiti sulle porte d'ingresso dell'edificio sacro- non ci sono solo i lontani episodi della Bibbia, del nuovo Testamento o delle storie dei Santi che, magari, sanno a mala pena riconoscere. 
Quando guardano le sculture dei Mesi vedono, invece, che lì  è rappresentata la loro vita di tutti i giorni, in ogni suo aspetto. 
Lì non hanno bisogno di spiegazioni: quei gesti li riconoscono uno a uno. 
E sentono che, nella dignità di quelle rappresentazioni, anche la loro più minuta fatica quotidiana assume una dimensione quasi sacra.




Il Belgio, i frati trappisti e l'arte della birra

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Agosto- si sa- è il mese delle ferie e dei viaggi  e mi sembra giusto che anche il blog respiri questo clima di vacanza.
Il fatto è che, al momento, non sono in grado di dare consigli per soggiorni al mare, in montagna, e nemmeno per gite in parchi naturali o in città d'arte. 
Mi è venuto a mente, però, di proporre  un itinerario, poco battuto, anche se non privo di attrattive: un giro per le abbazie trappiste del Belgio.
Detto così può sembrare un percorso "di nicchia", poco allettante e riservato solo a chi voglia estraniarsi dal mondo in cerca di meditazione e di raccoglimento. 
E, invece, è un itinerario che può offrire gustose e concrete soddisfazioni.

C'è poco da dire: il Belgio- ne ho avuto la conferma da quando ci vivo- è il paese della birra. 
Ne sono state censite più di mille (qui è il link), prodotte dappertutto, artigianalmente o da grandi industrie, nei  paesi o nelle città. 
E, consumate ovunque, in famiglia, come nei ristoranti  o nei bistrot, ma sempre- ed è tassativo- versate nel loro specifico bicchiere. 



Davvero difficile districarsi in questa selva di odori e sapori, ma gli intenditori- e in Belgio non sono pochi-  non hanno esitazioni. 
Affermano, con la sicurezza dettata dall'esperienza, che, per trovare le birre migliori, bisogna andare nelle Trappe, le abbazie dei Trappisti, i monaci del più rigoroso degli Ordini benedettini (qui è un link al sito).
Un'affermazione che può destare una certa meraviglia perché, a prima vista- lo ammetto- sembra che ci sia ben poco in comune tra la bionda bevanda e gli austeri monaci votati, da secoli, alla preghiera e al silenzio. 
E, invece, no! 
Basta ricordare che, all'interno delle Trappe, dietro le spesse mura della clausura, le giornate sono scandite dalle preghiere, ma anche- come prescrive la regola di san Benedetto dell'"Ora et labora"- dal lavoro destinato al sostentamento del convento 
Altrove, si coltivano orti, frutteti, o ci si dedica all'artigianato. 
In Belgio- c'è da stupirsi?- nelle abbazie trappiste, si produce birra. 
E che birra!

Talmente ricercata che, per fregiarsi dell'appellativo di trappista e del tipico logo esagonale, deve obbedire a una serie di regole inderogabili, pena la revoca del marchio: deve essere prodotta dai monaci all'interno dell'abbazia, imbottigliata e commercializzata sotto il controllo della comunità monastica. I profitti, poi, devono essere impegnati esclusivamente a scopi sociali o benefici (qui)

Le regole, come si vede, sono  rigide e le birre che si possono definire autenticamente trappiste sono poche: appena dieci in tutto il mondo (tutte le informazioni sono qui)
Due sono in Olanda, una negli Stati Uniti e una in Austria. 
Le altre sei sono tutte in Belgio. 
Elencate, rigorosamente in ordine alfabetico, per non scontentare nessuno, sono quelle di: Achel, Chimay, Orval, Rochefort, Westmalle e Westvleteren  (per ognuna ho inserito un link al sito con tutte le informazioni).

Insieme a Tintin, Magritte e la nazionale di calcio dei Diables rouges, rappresentano un punto d'orgoglio per tutti i Belgi, poco importa se valloni o fiamminghi. 
Tanto da essere citate in ogni guida gastronomica, esposte in ogni locale tipico che si rispetti  e raffigurate, addirittura, in una serie di francobolli:


È vero che le birre trappiste ormai non sono più un'esclusiva del Belgio e che si possono trovare dappertutto. 
Ma un' eccezione c'è: la Westvleteren, considerata dai più raffinati niente di meno che la migliore del mondo, imbottigliata, abitualmente, senza etichetta e con le informazioni di legge riportate sul tappo. 
Questa birra rarissima- i frati dell'abbazia che la produce sono appena dieci- non viene commercializzata in grandi quantità. 
Chi la vuole ne può ordinare una cassa, ma solo ogni sei mesi
In ogni caso, per bere una Westvleteren, così come le altre birre trappiste, è preferibile- e di gran lunga-  andare sul posto. 
Il gusto non sarà diverso, ma l'atmosfera di sicuro, sì.

Gli amatori d'arte e d'architettura si dovranno accontentare di vedere i conventi trappisti solo dall'esterno: sono luoghi di clausura edificati in posti isolati circondati dal verde e, per lo più, pesantemente rifatti tra Otto e Novecento. 
Per gli amatori di birra, invece, nessun problema: i bistrot dove trovare la loro bevanda preferita, in genere ubicati vicino all'abbazia da cui dipendono, sono aperti a tutti. 
Sedersi a un tavolino e gustare uno (o più) bicchieri di birra trappista, magari accompagnati da una "portion" di  formaggi d'abbazia sarà sempre possibile.
E, allora, cos'altro resta da dire, se non: Salute! Santé! Proost!





  





Raoul Dufy: il piacere di dipingere

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Vigilia di Ferragosto, tutti (o quasi) al mare o in vacanza. 
A me, rimasta come sono in città con un sole incerto e una temperatura che- almeno qui a Bruxelles- sa già d'autunno, non resta che trovare un po' di consolazione nel rivestire il blog dei colori dell'allegria.
Magari, pubblicando un quadro di Raoul Dufy (1877-1953) come "La mer a Sainte-Adresse" ora al Musée des Beaux Arts di Nancy:




Il sole al tramonto, in un cielo che trascolora dall'azzurro all'arancio, lascia sull'acqua del mare la sua scia rossa  e si offre, quasi fosse un primo attore, all'ammirazione di un gruppo di eleganti signori che passeggiano sulla Promenade.  All'orizzonte, una barca e un battello che lancia nell'aria il suo pennacchio di fumo.
Colori accesi, personaggi che diventano sintetiche silhouettes, un blu vivo che invade tutto: la sensazione di vitalità e di allegria che predomina nella tela è tipica della pittura di Raoul Dufy (ne ho parlato anche qui
Spiagge, regate, corse di cavalli, città in festa, sono i suoi soggetti preferiti. 
La "belle vie" di chi non ha preoccupazioni, ma anche quella di chi si sa godere ogni pur piccolo momento di felicità.

Sorte ingrata quella di quest'artista che fa della gioia di dipingere la sua ragione di vita. 
I critici più sussiegosi lo hanno inserito nella categoria dei pittori "troppo leggeri per essere grandi"Come se soltanto chi soffre e si macera fosse capace di fare arte.
Invece, la leggerezza può essere una virtù. Per me, addirittura, una delle più grandi.
Sarà per questo che mi piace tanto. E non sono, di certo, l'unica. Tant'è vero che Dufy è stato capace di suscitare l'ammirazione di una scrittrice di non facile contentatura come Gertrude Stein che, in un articolo su "Liberation" del 1946, identifica la sua arte con il piacere allo stato puro. 
Un bell'omaggio a un artista che, ai suoi inizi, ha costeggiato le avanguardie, dai fauves al cubismo, rimanendone influenzato, ma riuscendo a mantenere uno stile proprio e originale. 
E che è capace di percorrere tutta la sua esistenza con una levità straordinaria, anche quando, negli ultimi tempi, è fiaccato da una malattia invalidante. 

Pittore, illustratore, disegnatore di tessuti, la sua è una produzione sterminata, sempre sotto il segno dell'allegria e della gioia di vivere. 
Senza essere mai banale, perché Dufy è uno di quegli artisti che possono essere, allo stesso tempo, semplici e complessi e che sanno dissimulare, dietro una cortina luminosa di colori, tutto lo sforzo e la fatica.
Come qui, dove la sua pittura  può sembrare a prima vista perfino superficiale. E, invece, nasconde, nella sua apparente facilità, quella "sofisticazione vertiginosa di chi è in grado di giocare con la gradazione delle tinte, come se fossero note musicali", di cui parla l'amico poeta Guillaume Apollinaire.
Un'immagine, dunque, dove il piacere degli occhi diventa anche  quello dell'intelligenza e del cuore.

In fondo, con Dufy, concedersi una pausa, può essere anche questo.
Mettere un CD con una vecchia canzone di Charles Trenet (qui o qui), guardare un suo quadro, e, varcando con lui il cancello azzurro della fantasia, abbandonarsi, senza troppi pensieri, alla felicità del momento.  



R.Dufy, La  grille, 1930



La via svizzera all'assurdo: le cartoline di Plonk e Replonk

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Anche oggi, tanto per cambiare, è una giornata di tempo incerto e mi tocca a stare in casa. Per fortuna, posso distrarmi sfogliando un album di vecchie cartoline che immortalano eventi indimenticabili.

Come, ad esempio, la fine della ciclopica impresa della costruzione delle Alpi nel 1899, con un gruppo di operai che posano, fieri e orgogliosi, dopo aver collocato l'ultima cima:


oppure il primo (e, forse, unico) calesse a utilizzare la rivoluzionaria, quanto poco pratica, invenzione della retromarcia: 


per arrivare alla malinconica immagine di un'intera famiglia, colpita dalla terribile epidemia di mustacchi che infuriò nel 1890 e che non risparmiò né donne, né bambini: 


e per finire con la foto del 1911, che ritrae il glorioso Club dei giocatori di domino del Giura, in occasione della trentesima vittoria consecutiva nel Campionato svizzero a squadre:


No, non sono diventata matta e non avete nemmeno sbagliato blog. 
Queste cartoline esistono davvero: sono quelle create da Plonk e Replonk, due artisti, grafici, editori, comici e chi più ne ha più ne metta, titolari, dal 1997, di un atélier dichiarato da loro stessi "di pubblica inutilità"
All'anagrafe, Hubert e Jacques Froidevaux sono fratelli (qui) e, per di più, svizzeri, nati in una piccola città industriale, Chaux- de-Fonds, con "40.000 abitanti e altrettanti orologi" nel massiccio del Giura (qui è un video con una loro intervista)


La loro intenzione, sotto le vesti di Plok e Replonk (lo pseudonimo richiama i colpi del martello) è quella abbattere i luoghi comuni: primo fra tutti quello che gli svizzeri non abbiano senso dell'umorismo. Perché loro, invece, ne hanno da vendere. 
Un umorismo bizzarro che arriva fino all'assurdo. 
E che ha cominciato  a esercitarsi, modificando cartoline di fine'800, ritrovate in qualche negozio di rigattiere: vecchie foto, a cui il bianco e nero, il seppia o i colori sbiaditi e l'aria solenne dei protagonisti, abbigliati in ghette e doppiopetto, conferivano un tono di austera serietà.  
Con un programma di foto-ritocco e, dove occorre, anche con i tagli e le ricomposizioni di un "collage", sono stati capaci di trasformarle, con l'aggiunta delle loro bizzarre didascalie, in immagini così strampalate da rivelare insolite e insospettabili realtà. 

Basta guardare  come sono riusciti a stravolgere la serie dei "mestieri di una volta", tanto cara ai collezionisti più nostalgici.
Per esempio con questo gruppo di operai di Lione intenti al lavoro, che, brandendo biberon pieni fino all'orlo, si occupano dell'ingrasso dei bachi da seta:




Oppure con questo generale, che passa in rivista le truppe, abbigliato di un vezzoso tutù, ultimo esponente della nobile professione dei "generali da operetta": 



Sarcastici e irridenti, non si fermano nemmeno davanti all'esercito e arrivano, anzi, a ricreare interi battaglioni di fanti in divisa, rigidamente inquadrati e addestrati per pulire, con secchi e spazzoloni, lo sterco del cavallo del comandante:  


Tanto meno hanno scrupoli nell'attaccare tutta la retorica che imperversa nelle celebrazioni del Milite ignoto, collocando, accanto alla tomba, il gruppo in lutto della moglie e dei cinque figli:


Un umorismo beffardo, corrosivo, capace di impegnare  a lungo chi ha voluto trovarne ascendenze illustri tra le arti incoerenti (ne ho parlato qui), il movimento dada o il surrealismo, oppure lo ha avvicinato al non-sense, ai disegni dell'americano Glen Baxter (qui) e- perché no?- perfino alle paradossali battute dei Monthy Phyton.


Plonk e Replonk, però, non si lasciano classificare.  
Preferiscono che la loro opera rimanga un Ufo, un oggetto non identificato e si accontentano di definirsi, più che artisti, "politossicodipendenti di sigarette e di cioccolato". 
Intanto, senza prendersi troppo sul serio, continuano a sovvertire la realtà con le loro idee "che vanno e vengono come un tosaerba in uno stadio o come un boomerang australiano". 

Fino a prendere in giro una società di un tecnicismo così sofisticato da inventare macchine complesse per piegare le banane:


o così maniaca della sicurezza da simulare, con tanto di manichini disarticolati,  improbabili incidenti di pedalò:


Con quel pizzico di serietà e di abitudine agli impervi sentieri di montagna necessari per avventurarsi nel terreno vertiginoso dell'assurdo, Plonk e Replonk si divertono a sfidare il buon senso e a combattere, con l'ironia, le battute e i giochi di parole, le convenzioni del quotidiano

Come con questo straordinario "Fantasma" che all'Opéra preferisce "l'apéro":


Basterà immaginarselo, con tanto di lenzuolo e di catena, aleggiare intorno a qualche tavolino pronto per un'"apero-cena" (una parola che sembra inventata dai due fratelli) per introdurre un po' di bizzarria nelle nostre serate estive e rinfrescare i pensieri con l'aria stuzzicante delle montagne svizzere. 







Chi non si sgomenta di fronte all'assurdo, troverà una sorta di "the best of" nel loro delizioso libro "De Zéro a Z" (qui) oppure scoprirà, nel loro sito di plonkeries, tutta una serie di oggetti stravaganti e inutili, di cui non sarà facile fare a meno. Il link è qui 





Il talismano di Carlo Magno

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Un abbagliante pendente, databile al IX secolo, in filigrana d’oro con, al centro, nella parte anteriore, uno zaffiro ovale, tagliato a cabuchon, dal quale si vede, in trasparenza, una reliquia. 
Intorno, inserite nell'oro, lavorato a filigrana e granulazione, su tutt'e due le facce, ben cinquantatré pietre preziose montate in funzione della loro forma e del loro colore, tra cui si riconoscono perle, granati, ametiste  e smeraldi.




Sul verso si ripete lo stesso tipo di decorazione, ma lo zaffiro originale è rimpiazzato da un vetro più scuro:





Un gioiello, straordinario, la cui scia dorata attraversa tutta la storia d'Europa, a tal punto che le sue vicende potrebbero essere la trama di un film, in cui scene e costumi cambino continuamente. 


Il primo atto si apre nell'anno Mille ad Aquisgrana, nella Cappella Palatina.
Ottone III, imperatore del Sacro Romano impero, è arrivato lì per esumare il corpo di Carlo Magno, morto in una fredda notte d'inverno di due secoli prima.
La scena che gli si presenta davanti è impressionante: il corpo del grande Carlo sembra ancora intatto, seduto, con la schiena eretta, la corona e lo scettro e, come avviene per i Santi, pare emanare un profumo intensissimo.
Tutti ne sono turbati, ma Ottone III non ha esitazioni: dopo aver prelevato alcune reliquie porta via con sé  il medaglione che Carlo Magno aveva sul petto (per chi voglia approfondire quiè un link).
Un gioiello preziosissimo che si diceva fosse un regalo del favoloso califfo di Badgad, Harun al-Raschid (niente di meno che il futuro protagonista delle "Mille e una notte").
L'ambasceria, inviata da Carlo Magno, era tornata ad Aquisgrana carica di regali di uno splendore mai visto: le chiavi del Santo Sepolcro, una scimitarra dorata, un orologio a acqua, tappeti, tessuti, scimmie, leopardi e perfino l'elefante di cui ho parlato qui.
Tra quei doni c’era anche un magico medaglione ornato da uno zaffiro, la pietra a cui si attribuiva il potere di vincere ogni inganno. 
Devozione e superstizione all'epoca si mescolano: Carlo Magno si convince che l'influsso benefico della pietra sarà accresciuto dalle rarissime reliquie del latte e dei capelli della Vergine che fa inserire al suo interno.
E ne fa il suo talismano.
Lo porta sempre con , legato al petto con due lacci di cuoio, fino a pretendere che sia sepolto con lui.


Dopo il recupero da parte di Ottone III, per secoli del talismano si perdono tracce: probabilmente rimane custodito, tra le oreficerie e i vasi sacri del tesoro della Cattedrale, mentre il suo ricordo sfuma nell'alone indistinto della leggenda.
Ma ecco che, d'improvviso, torna alla luce. 

Il secondo atto si apre nella Cattedrale di Aquisgrana illuminata a giorno dalla luce delle candele.

Siamo nell'ottobre del 1804 e Giuseppina Bonaparte è arrivata da Parigi, per fare- nella città di Carlo Magno- le prove generali della nuova etichetta imperiale, con un un tour de force di ricevimenti, di mondanità e di cerimonie religiose.

Ed è proprio nel corso di un Te Deum nella cattedrale, che il talismano fa la sua splendente ricomparsa.

È il vescovo  stesso a offrirlo a Giuseppina, come ringraziamento a lei e, soprattutto, al suo augusto consorte, per aver restituito alla chiesa le reliquie confiscate durante la Rivoluzione.

Sarà per la bellezza dell'oro e delle pietre o per l'aura del mito di Carlo Magno, ma, da allora in poi, Giuseppina  da quel medaglione non si separa più. 

Tanto che alcuni giurano di averglielo visto al polso, quasi fosse un braccialetto, qualche mese dopo, nel giorno della sua solenne incoronazione a Imperatrice.

Testimone del suo momento di gloria, il talismano rimane con lei anche nei tempi bui, quando, dopo il divorzio da Napoleone, si ritira alla Malmaison.

E per anni quel gioiello barbarico spiccherà nel suo portagioie, come un'elemento alieno, tra le sottili filigrane dei suoi diademi e delle sue collane neo-classiche. 

Alla sua morte, Giuseppina lo lascerà all'amata figlia Ortensia, che, a sua volta, lo donerà al figlio. Anche stavolta si tratta di un imperatore: Napoleone III. 

Il terzo atto  prevede un nuovo cambio di scena.

Siamo nel sobborgo londinese di Chislehurst nella camera da letto di Napoleone III, in esilio in Inghilterra dal 1870, dopo il crollo del suo Impero.

Il talismano poco o nulla ha potuto contro la mala sorte. 

Ma la moglie, la religiosissima imperatrice Eugenia, convinta, malgrado tutto, dell'influsso benefico del gioiello, è riuscita a portarlo fortunosamente in Inghilterra, sottraendolo a ogni tentativo di confisca. 
Lo ha voluto con sé quando ha dato alla luce l'erede con l'idea, forse, di trasmettergli quel potere imperiale che pensava fosse legato al medaglione.

E ora che le sue ambizioni sono finite lo custodisce, nella camera del marito in un reliquiario a tempietto che ha commissionato a un orefice alla moda. 
E, finché può, non intende privarsene.

In realtà, le peregrinazioni del talismano non finiscono qui: manca ancora l'ultimo atto.


Siamo finalmente ai giorni nostri e in una sala del palazzo del Tau, annesso alla cattedrale di Reims, a cui l'imperatrice Eugenia lo ha donato dopo la morte del marito, il prezioso talismano si offre, nella sua vetrina, alla curiosità dei visitatori e, magari, si presta pure a qualche selfie. 

Ma guai a confonderlo con un qualsiasi, sia pur bellissimo, pezzo di oreficeria. 

Basta ripensare alla mani imperiali che lo hanno sfiorato e alla fama che lo ha accompagnato nel corso dei secoli, per ritrovare ancora intatta, nel baluginio dell'oro e delle gemme, la sua antica magia.







Il calendario di pietra: settembre

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"Dixe Septembre: io coglio de li fighi/e l'uva vendemmo/ strengo le botte/e manzo li boni chaponi/ e bevo del mosto"(Ballata dei Mesi, XIV secolo)



Settembre, nono mese dell'anno, il periodo in cui l'estate (anche quella pazzerella di quest'anno) declina e lascia il posto all'autunno. 
Nessun dio della mitologia e nemmeno nessun imperatore nel suo nome: semplicemente era il settimo mese del calendario romano, che faceva iniziare l'anno da marzo. 
E da sette, appunto, ha preso il nome.


Nei calendari di pietra dell'inizio del XIII secolo, da cui, quest'anno, "stacco" un foglio ogni primo del mese, settembre è il tempo della vendemmia.
Dopo i lavori legati alla mietitura e alla trebbiatura del grano, la vendemmia, era  il momento più atteso dell'anno e l'occasione di una festa per l'intera comunità: il vino era importante per tutti. 
Non solo per la liturgia, dove, nel rito dell'Eucarestia, acquistava, insieme al pane, una valenza sacra, ma anche nel quotidiano, dove era consumato ogni giorno- e non solo dai ricchi- tanto da essere spesso considerato parte integrante del salario e da costituire un'utile e pregiata merce di scambio.  

Nella formella dedicata a settembre del Ciclo della Cattedrale di Ferrara (ora conservata al Museo della Cattedrale), gran parte della scena è occupata da una grande vite, con i suoi pampini e i suoi tralci, da cui pendono grappoli così pieni e maturi da far immaginare una raccolta più che abbondante:




Il contadino, a piedi nudi, è abbigliato con una corta tunica che, per comodità, ha annodato su un fianco. Per non impigliare i capelli nei tralci della vite si è messo in testa una di quelle cuffiette col sottogola, che all'epoca erano comunissime. 
Con grande concentrazione, sta cogliendo i pesanti grappoli per depositarli nell'ampio cesto di vimini,  già colmo, ai suoi piedi.

I particolari della formella sono di uno straordinario realismo, tanto che gli esperti di pratiche agricole hanno potuto notare che la vite è sostenuta da un palo, la cui preparazione era, probabilmente, raffigurata nel mese di febbraio (qui è il link): sarebbe questa una testimonianza di un sistema di coltivazione in filari ravvicinati, diverso da quello "ad arboretum", con le viti in coltura promiscua, praticato in età romana.


Altri dettagli, invece, come la perizia con cui sono sfruttate la luce e l'ombra, la cuffia così aderente alla testa da far trasparire l'orecchio, le vene che si intravedono nella mano destra o l'intreccio del canestro di vimini parlano della straordinaria abilità dell'ignoto scultore. 
Uno di quei maestri itineranti che, nella prima metà del Duecento, passano da un  grande cantiere all'altro e che portano in Italia le novità del naturalismo elaborato nelle sculture delle cattedrali dell'Ile-de-France. 
Un artigiano, abituato alla durezza del lavoro e che, probabilmente, ben conosce, per averle viste nelle campagne nel corso dei suoi spostamenti, quelle attività agricole, di cui sa rendere una così viva e tangibile testimonianza. 
E che, soprattutto, sa restituire, nel volto assorto e nobile del contadino, tutta dignità della fatica di tutti i giorni.






Fotografare i sogni: Jerry Ueslmann

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È possibile fotografare i sogni? Me lo sono chiesta, guardando queste fotografie.

Due mani accostate che sembrano contenere il mare, una barca e un pezzo di cielo:



Una casa abbandonata che pare abbia messo radici, quasi fosse il tronco di un gigantesco albero:



Un salotto elegante di una casa signorile, dove,  sul  pavimento diventato sabbia, qualcuno ha costruito un castello con tanto di torri e di fossato:



Immagini affascinanti, dove i confini tra realtà e fantasia si annullano.
Sono le foto di Jerry Ueslmann, nato a Detroit nel 1934 e maestro riconosciuto della fotografia contemporanea. 
Negli anni '50 e '60, quando le foto digitali e i programmi di foto-ritocco sono ancora di là da venire, Ueslmann sperimenta un modo diverso di fare fotografia. 
Diverso, soprattutto, dall'estetica- all'epoca prevalente- basata sull'istantanea e sull'idea di cogliere il "momento decisivo", insomma su un concetto di fotografia come testimonianza diretta della realtà. 
Per Ueslmann, invece,  lo scatto è solo un un punto di partenza.
Secondo lui il processo creativo si realizza, invece, nella camera oscura, attraverso tecniche sofisticate e una serie interminabile di passaggi.
È lì che mescola i suoi negativi, li ricostruisce, li manipola fino a realizzare immagini sempre diverse, dove  oggetti differenti, accostati insieme, producono risultati stupefacenti. 
Le mani di una donna, un corvo e un nido possono, allora, diventare un'immagine come questa:



Oppure un enorme e misterioso albero può comparire d'improvviso a un gruppo di persone in controluce, come una strana visione che si levi dal mare, sullo sfondo di un cielo nero come la pece:


Piccoli miracoli di una fantasia, che Ueslmann lascia libera di esplorare i terreni dell'inconscio, così come voleva l'estetica del surrealismo. 
Nella sua ricerca, infatti, il suo punto di riferimento sono i grandi fotografi surrealisti, come Man Ray, ma, soprattutto, un pittore come René Magritte. 
Come succede nei quadri di Magritte, anche nelle foto di Ueslmann gli elementi della realtà non sono deformati, anzi, sono nitidi e ben riconoscibili, ma combinati in una maniera illogica che destabilizza e che spiazza.
"Le informazioni ci sono tutte- afferma Ueslmann- ma il mistero rimane".
Come in questa immagine, dove tutto è sottosopra, terra e acqua sono rovesciate e una barca galleggia  tra le nuvole:



Oppure come questa, dove uno strano angelo sembra levarsi in volo, sopra il cratere di un vulcano:



O, almeno, questo è quello che ci vedo io.
Perché, in realtà- come avviene per Magritte- Ueslmann lascia che sia lo spettatore stesso a trovare nelle sue foto quello che vuole. 
Ogni interpretazione è ammessa: a lui basta che le sue immagini mettano in crisi le nostre convinzioni e suscitino qualcosa dentro di noi, fin nel profondo.
"Sono attratto da immagini che sfidano il nostro senso del reale; i miei paesaggi non documentano la realtà alla lettera. Voglio che le immagini che creo sfidino la credibilità intrinseca della fotografia stessa. Considero le mie foto chiaramente simboliche, ma non c'è alcuna formula segreta per decifrarne il significato":- ha dichiarato in un'intervista.
Come se la fotografia fosse un mezzo per esplorare l'enigma di una realtà nascosta e misteriosa che sfida ogni ragionevolezza e che può essere dentro e fuori di noi. 
Una realtà, dove non c'è alcuna sicurezza, dove i soffitti delle stanze si aprono su un cielo nuvoloso e un uomo in miniatura passeggia su una scrivania:




Per ottenere immagini di questo tipo Ueslmann lavora in camera oscura con una pazienza da certosino. 
Tuttora, infatti si rifiuta di usare le foto digitali e i nuovi strumenti di foto-ritocco e continua ad archiviare centinaia di negativi, di alberi, di mani, di paesaggi, di interni, di nuvole... per combinarli e rielaborarli, seguendo la sua immaginazione.
Ueslmann, però, non è solo un virtuoso della tecnica: è ben di più.
In quella camera oscura, quasi fosse un mago o un alchimista, mescolando pazientemente i suoi elementi, crea delle immagini così poetiche e irreali da darci l'impressione di essere capace di fotografare i suoi e i nostri sogni. 








Qui è  il sito personale di Jerry Ueslmann dove è possibile  vedere la sua  galleria di fotografie
E qui un video dove Ueslmann racconta il suo lavoro in camera oscura


Il grigio di Marc Chagall: "L'anima della città"

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Dove sono finiti i verdi smeraldo, i gialli vivaci, i rossi carminio che Marc Chagall (1887-1985) utilizzava abitualmente per le sue tele? 
In questo dipinto, intitolato "L'anima della città" e oggi conservato a Parigi al Centre Pompidou, non c'è quasi più traccia dei suoi colori. Su tutto domina il grigio. 


Su uno sfondo che sembra quello di un cielo in tempesta, Chagall si raffigura con due volti, come il dio romano Giano, mentre intorno a lui fluttuano strane apparizioni. 
Siamo nel 1945 e l'artista, già da qualche anno, si è rifugiato, negli Stati Uniti, a New York, per sfuggire la barbarie nazista e la guerra che scuote l'Europa. 
Ma anche da lontano partecipa, lui ebreo, al dolore e alla sofferenza del suo popolo. 
Le tavole della legge, l'arca dell'alleanza avvolta da un drappo rosso e il candelabro che raffigura nel quadro sono tutti simboli  della sua identità. 
Mentre la sua città natale, la sua amata Vitebsk, con le sue cupole colorate e le sue strade costeggiate da case di legno, sembra qui una città fantasma, dove si leva ancora il fumo degli incendi e delle distruzioni della guerra e dove qualche abitante cerca di fuggire su un carretto condotto da una vacca che vola nel cielo. 
Il grande Crocifisso, in primo piano, rappresenta, allora, il dolore per tutte le vittime delle persecuzioni e della guerra. 

Mai come in questo momento, Chagall si sente diviso in due. 
L’angoscia per la tragedia della guerra si accompagna a una sofferenza privata, lacerante: insieme alla sua città, è scomparsa anche colei che ne era l'anima, sua moglie Bella, raffigurata, nel dipinto, avvolta in un telo bianco con la stessa levità di un'apparizione o di un fantasma. 
Proprio la sua Bella, quella che ha ritratto tante volte mentre passeggiava, levandosi in volo con lui nei cieli variopinti della sua pittura (ne ho parlato qui). 
La donna, di cui si è innamorato, che ha sposato nel 1915 e che, per trent’anni, ha diviso la sua vita; la donna che lo conosce fin da quando si chiamava Moshe Shagal ed era un artista squattrinato, con un nonno macellaio e un padre venditore di aringhe. 
Con lei ha spartito, l'amore per Vitebsk e il ricordo delle passeggiate lungo il fiume, i vicoli pieni di gente, il mercato o le piccole botteghe, ma anche l’appartenenza alla stessa comunità ebraica con la presenza quotidiana del rabbino, le cerimonie religiose e l’allegria della musica e della danza scatenata. 
Con lei ha lasciato la Russia per stabilirsi a Parigi e con lei ha condiviso la buona sorte, quando è arrivata la notorietà. 
"È come se Bella sapesse tutto di me, del mio presente e del mio avvenire...per molti anni il suo amore ha avvolto tutto quello che facevo come una luce":- ha sempre detto Chagall. 
Quando è morta, nel 1944 in un ospedale americano, per lui "le tenebre hanno avvolto tutto". 
Ha voltato contro il muro le tele del suo studio e per nove mesi ha smesso di dipingere. 
In quel momento il suo mondo è andato in frantumi, ogni luce è scomparsa e il dolore ha portato via con sé ogni colore, lasciando solo il grigio. 

Ora però, qualcosa sta cambiando, tanto che Chagall ha ripreso a lavorare e si rappresenta qui con pennello e tavolozza. 
Sente che il grigio della sua vita non è ancora sparito, ma forse sta ricominciando a riprendere fiducia nell'avvenire. 
Da un lato, c'è il ricordo di Bella che riempie lo spazio intorno a lui; dall'altro c'è la presenza e forse già l'amore per un'altra donna incontrata da poco, la bionda Virginia, che raffigura in basso con in braccio un gallo, che per lui è il simbolo dello slancio vitale e del rinnovamento. 
Con lei c’è una nuova vita che lo reclama e, soprattutto, c’è la speranza di ricominciare a ridare colore al mondo. 

Pochi artisti, come Chagall, hanno saputo parlare, nei loro quadri, delle loro sensazioni e raffigurarle, come qui, in immagini semplici che richiamano la cultura popolare o le illustrazioni dei libri per bambini, ma che risentono anche di influenze artistiche che vanno dal cubismo al surrealismo. 
"L’arte per me è soprattutto uno stato d'animo": ha sempre detto Chagall, tanto che nei suoi dipinti non cerca di imitare la realtà, ma piuttosto di raccontare quello che gli succede, trasfigurandolo con la sua fantasia, come se i suoi quadri non fossero che un prolungamento di se stesso. 
E così ci consegna, anche stavolta, un pezzetto della sua vita, mescolando la sua vicenda personale alla grande storia, il suo dolore privato al dolore di tutti e trasformando le sue emozioni in un’opera d’arte.







La voce del silenzio: gli interni di Vilhelm Hammershøi

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Una tela, in cui sembra che la vita sia sospesa, intitolata "Interno"e ora al Museo danese di Randers.
Sullo sfondo di un muro grigio-azzurro, contro cui è collocata una credenza, è raffigurata- in piedi e vista di schiena- una giovane donna, vestita di scuro con la testa lievemente girata di tre quarti e un vassoio sotto il braccio sinistro, mentre un raggio di sole le illumina la nuca.


In una stanza dai colori tenui sono appoggiati alla parete due sedie bianche e un grande divano scuro. 
Nessuna presenza umana in questo dipinto intitolato "Tramonto nella stanza da disegno" e ora al Museo di Berlino:



Un'infilata di stanze, in cui si aprono una serie di porte bianche, da cui si intravedono pochi mobili: un tavolino, una sedia e, più lontano, un pianoforte. Colori tenui, e un’atmosfera ovattata in queste "Quattro stanze", ora al Museo di Copenaghen:



Ambienti spogli, disadorni, linee nette, una figura di donna, di cui non si vede o si intravede appena il volto e un’atmosfera dolce e malinconica.

Sono i dipinti del danese Vilhelm Hammershøi (1864-1913).


Temperamento solitario e riservato, Hammershøi (1864-1916) nato a Copenaghen in una famiglia agiata e colta, decide molto presto di dedicarsi esclusivamente alla pittura e, dopo regolari studi accademici, conduce un’esistenza tranquilla e senza clamori con l’amatissima moglie Ida, sposata nel 1891. 
Tutt'altro che isolato, viaggia ed espone i suoi dipinti nelle maggiori città d’Europa, ammirato da personaggi come Serge Diaghilev (il fondatore dei Balletti Russi), il poeta Rainer Maria Rilke o il regista Carl Theodor Dreyer. 
Pur essendo ben informato sulle ultime tendenze dell’arte contemporanea, rimane sempre fedele alla sua maniera di far pittura, al di fuori di ogni moda e di ogni tentativo di classificazione.

Per la critica dell'epoca, questo danese timido e ombroso deve apparire come un oggetto misterioso: ma come si fa- avranno pensato- nei primi anni del ‘900 a ignorare la maniera di dipingere dei pittori post-impressionisti, con il colore che si decompone e che si frantuma, fin quasi a scomporre il soggetto? Come si fa ad essere così  antiquati?  
In effetti, mentre nel resto d'Europa infuriano i dibattiti e le avanguardie artistiche sognano di cambiare il mondo, Hammershøi continua a dipingere, con il suo stile immutabile, i suoi soggetti preferiti: qualche  paesaggio, la sua famiglia, ma, soprattutto, le stanze della sua casa. 
Stanze vuote o, al massimo, abitate da una figura femminile- la moglie Ida- per lo più vista di spalle. 
Come in questa tela, intitolata "Donna al piano" e ora al Museo di Copenaghen, dov'è raffigurata, sempre vestita di scuro e vista di schiena, seduta a un pianoforte.
In primo piano, un tavolo con una tovaglia di un bianco immacolato, stirata di fresco, su cui poggiano due scodelle e un piattino con il burro, mentre la luce del sole che illumina la stanza, ne  rende ancora più abbagliante il candore: 




Mentre, all'epoca, gli appartamenti sono sovraccarichi di mobili, di carte da parati, di piante e di ammennicoli di tutti i tipi, i suoi ambienti sono più spogli e depurati possibile, fino a diventare pure geometrie di luce;
"Scelgo un tema per le sue linee- scrive Hammershøi- e solo per ciò che io chiamo il contenuto architettonico di un’immagine". 
La luce per lui è importante, ma non ha bisogno di molto colore "perché- sostiene– meno colori ci sono in un quadro tanto meglio funziona". 
Perciò si è abituato a usare una gamma estremamente ridotta di tinte, basata su sottili variazioni di bianchi, di grigi o di bruni, che conferiscono ai suoi dipinti un'atmosfera irreale e senza tempo.
Come in questo quadro, intitolato "Raggio di sole" e ora al Museo di Copenaghen, dove il pulviscolo dorato che entra dalla finestra riempie l'ambiente di una delicata vibrazione:





Tutto è così essenziale che i suoi interni chiari e silenziosi, sembrano rifarsi, più che alla pittura contemporanea, all'intimità dei maestri olandesi del Seicento e appaiono molto più vicini alla meticolosa sobrietà di Vermeer che al fragore di Picasso o di Matisse. 
Come in questo quadro, intitolato "Ida che  legge", ora in collezione privata, dove tutto è nitido e lindo e dove una donna di profilo sembra colta, di nascosto, nella sua intimità: 





Saranno i colori, oppure le inquadrature, ma sembra sempre che nei suoi quadri, muti e senza racconto, ci sia un qualche enigma da decifrare e che la calma e l’armonia apparente di quelle stanze possa nascondere una grande solitudine.


Dopo la morte di Hammershøi, con la tragedia della prima guerra e le rivoluzioni pittoriche dal cubismo al dada, il suo stile sobrio e immobile finisce per passare di moda e cadere nell'oblio. 
La sua riscoperta avviene solo negli anni '90 del Novecento, quando i critici, conquistati dal suo fascino discreto,  paragonano la sua pittura alle silenziose nature morte di Giorgio Morandi e i suoi personaggi ai solitari protagonisti dei quadri di Edward Hopper. Oppure ne riconoscono  le risonanze con il teatro di Ibsen, se non con certi film di Ingmar Bergman o dei registi danesi contemporanei del movimento di "Dogma"

Finalmente, il suo "realismo malinconico", com'è stato definito, è tornato di nuovo ad ammaliare, tanto che il suo rigore, la sua purezza misteriosa, la sua sobrietà senza orpelli sembrano porsi come un antidoto al caos fragoroso e opprimente dei nostri giorni. 
Quelle stanze vuote, quegli interni intimi e perfetti fanno risuonare qualcosa di profondo dentro di noi. 
Come se la sua pittura senza tempo ci mostrasse- come diceva Rilke- "la strada per scoprire ciò che davvero è importante ed essenziale". 
E non solo nell'arte.





Qui è il link a un video in cui Melania Mazzucco presenta un dipinto di Hammershøi esposto alla mostra "Ossessione nordica" che si è tenuta a Palazzo Roverella a Rovigo, da febbraio a giugno 2014.


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